Eroi sul Don, I bersaglieri del 3° e del 6° prigionieri in Russia

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view post Posted on 9/11/2011, 15:17
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EROI SUL DON – I BERSAGLIERI DEL 3° E DEL 6° PRIGIONIERI IN RUSSIA



Difficile in questi giorni in cui si parla dei 150 anni della nostra Italia non andare con la mente e con il cuore a quanti per Essa hanno dato tutto, animati dal senso del dovere e dal rispetto per l’ordine costituito.
Negli inverni fra i più freddi e spaventosi del secolo scorso, negli anni “40”, lungo le lontane rive del Don, decine di migliaia di soldati lasciarono la loro vita e persino di più: ogni diritto che spetta all’uomo, compreso il ricordo del proprio nome. Tuttavia, molti di loro non persero mai la dignità e l’onore. I campi di prigionia erano solo l’epilogo del lungo calvario che miglioria di soldati italiani si trovarono a dover affrontare negli anni 41 – 46 (per alcuni protratto fino a metà anni 50) in Russia.
Nonostante le direttive ufficiali circa il trattamento dei prigionieri, questi ultimi al momento della cattura venivano spogliati di tutto, dagli indumenti, stivali compresi ( veniva lasciata loro solo una camiciola di cotone, con 30° sotto zero, ed il pastrano da poter però indossare solamente la notte), a qualsiasi effetto personale: orologio, fede nuziale, foto, matite,etc.
Poi lunghe marce estenuanti, durante le quali chi si attardava veniva ucciso dai colpi del parabellum, senza quasi cibo e col divieto assoluto di bere (chi veniva sorpreso a raccogliere un pugno di neve per dissetarsi veniva fucilato), a volte schiacciati dai carri armati che venivano in senso opposto e che deliberatamente ignoravano la fiumana umana dei prigionieri. “DAVAI!!” (avanti). Era l’unico grido che riecheggiava. Così, per giorni, fino alle stazioni, dove i prigionieri venivano caricati sui treni. La speranza di un po’ di tregua al fisico provato lasciava presto il posto a nuovi orrori. Stipati tanto da dover viaggiare uno sull’altro per giorni e giorni, senza mai poter scendere se non da morti (le fermate servivano infatti solo per buttare giù i cadaveri, abbandonati sulla steppa, senza sepoltura e senza nome), quasi a digiuno, bagnando le labbra col vapore condensato depositatosi sui bulloni, feriti e non, malati di polmonite, tifo, cancrena, infestati da parassiti, senza alcuna possibilità di eliminare residui organici dai vagoni, giungevano nei campi di concentramento.
Il bellissimo convento di Suzdal rinominato per la triste occasione “Campo 160”, fu uno dei luoghi di prigionia più terribili della storia. Fra le tante testimonianze rimaste, colpisce quella del sottotenente Bruno CECCHINI, allora bersagliere a soli 20 anni, e poi per tutta la vita. La descrizione che egli fa della vita a Suzdal è oltre ogni immaginazione. In alcuni periodi la mortalità, per cause naturali raggiungeva la percentuale del 90%.
Si riporta un breve passo delle sue memorie, a testimonianza dello spirito bersaglieresco con cui affondò, così come altri suoi commilitoni del 3° Reggimento bersaglieri - tra cui Antonio TOTI nipote del mitico Enrico, Eroe della 1^ guerra mondiale - la sorte di quei momenti.
Provato dagli stenti, arrivato ormai a pesare 35 chili, in fin di vita per il tifo, egli racconta in terza persona:
“Signore, fammi morire, non ce la faccio più” – disse tra sé alzando gli occhi in alto, su, oltre il soffitto, verso il cielo. Ma fu un attimo di smarrimento e subito si riprese; quasi scusandosi e con vergogna disse a se stesso e al buon Dio: No, no, perdono, perdonatemi, ma che scherziamo davvero ? Io voglio, debbo vivere; sono un bersagliere del 3° e non temo nessuno, ne la morte o la vita, ne il dolore o la disperazione; Signore lasciami vivere. Forza bersagliere del 3°, su con la vita e avanti coi denti e col cuore. E con l’aiuto di Dio e l’incrollabile volontà, la vita vinse la morte.
Innumerevoli i tentativi da parte del NKVD, affinché lui, come altri ufficiali, giurassero fedeltà alla fede marxista abiurando a tutto il resto. Come premio, il miglioramento del trattamento in prigionia, come pena, la minaccia di non tornare mai più in Patria. Spinto a sottoscrivere petizioni per la cessione di Trieste, così Cecchini ricorda la sua risposta:
“Quando sono uscito dalla Scuola ufficiali di Pola, ho giurato fedeltà al Re, all’Italia e al suo legittimo governo. Sono un ufficiale e tale desidero restare, nient’altro. Al rientro in Patria, sciolto quel giuramento fatto, vedrò come comportarmi, deciderò allora, ora no.”
E fu trattenuto – insieme a TOTI, PONTIERI e al altri 50 ufficiali – fino al luglio del 1946, quando vennero liberati grazie ad eventi fortuiti ed interventi provvidenziali.
La sua storia finisce così,dedicata a tutti coloro “ che ebbero la sventura di vivere quell’immane tragedia che fu la guerra in Russia; per ricordare all’Italia e agli italiani immemori quei centomila fratelli Caduti al fronte o in prigionia che a tutt’oggi dormono il sonno dei morti nelle grandi fosse comuni sparse nell’immensa steppa gelata dell’URSS, dimenticati da tutti, svaniti nell’oblio dei ricordi, defraudati anche di una lacrima, di una croce, di un fiore, omaggi questi dovuti, nel consesso delle umane genti, ai morti, a tutti i morti di tutte le guerre.

Dott.ssa Cristina TOMASSINI
Socia simpatizzante ANB sezione di Roma

 
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