| Riaffermo che per me non esiste tabu. Se un fatto è realmente accaduto, giova sempre discuterne con tutta franchezza, intanto la realtà dei fatti non si potrà mai modificare. Errori ne hanno commesso tutti. Nessuno è infallibile e non ho mai visto qualcuno circolare con il classico cerchietto dorato, prerogativa dei santi. Intanto a me pare che, richiamare le norme internazionali previste dai codici di guerra del tempo, sia anacronistico, perché, in tutto il periodo interessato dalla guerriglia partigiana, nessuna delle parti in campo ne ha mai tenuto conto. Quelle in vigore, erano norme che i monarchi del tempo, di solito imparentati tra di loro, avevano a suo tempo concordato per combattere le loro guerre, terminate le quali tornavano a vivere come se per loro nulla fosse accaduto. Interessavano ai “monarchi” non ai soldati.
Le formazioni partigiane erano costrette a operare alla macchia. Erano forze ribelli alla dittatura nazi-fascista. Non potevano accedere al normale mercato. Non avevano fabbriche, dove produrre armi e munizioni. Erano un esercito che operava nella clandestinità. .La nostra non è stata una giostra di guerra, combattuta in un’arena con la presenza di belle principesse che posavano il loro fazzolettino profumato sulle armature del cavaliere preferito. Non è corretto estrapolare singoli fatti da quella che è stata la situazione generale della lotta partigiana, presentandoli poi come esempi generalizzanti. Il periodo resistenziale occorre esaminarlo nel suo insieme, dall’inizio, con lo sfacelo dell’esercito italiano abbandonato al suo destino senza ordini da una monarchia che aveva firmato la resa incondizionata. Nessuno, anche dopo il 25 luglio 1943, avrebbe potuto immaginare gli sviluppi della situazione, così come si è poi prospettata. Dopo la resa dell’otto settembre, la parola d’ordine generale era “TUTTI A CASA”. Soltanto che, anche questo non era stato previsto, l’esercito nazista iniziò a catturare i militari italiani che tentavano di raggiungere le proprie residenze. I primi sbandati, nelle nostre campagne, erano reduci che si nascondevano per non finire catturati e internati in Germania. Diciamo le cose come stavano, erano ex militari stanchi di una guerra inutile, che non volevano più combattere e morire per una causa sbagliata. Volevano semplicemente rientrare alle loro case, alle loro famiglie. Quelli che non poterono rientrare, si raggrupparono e cercarono di risolvere, per prima cosa, il grave problema del loro sostentamento. Siamo sinceri, non fu una cosa facile. Molti furono ospitati nelle campagne, dove ricevevano cibo in cambio di lavoro. Qualche gruppo, invece, commise anche azioni di forza, pur di ottenere cibo. Alcuni, che nemmeno erano reduci sbandati, organizzarono gruppi dediti al sequestro di cibo e animali, che poi rivendevano sul mercato clandestino, conosciuto come “borsa nera”. Superato il primo momento di sorpresa, furono i partiti antifascisti clandestini a prendere contatto con i gruppi, organizzando i primi reparti armati, che furono l’embrione di quella che diventerà “la Resistenza”. Nel frattempo, i reparti fascisti che stavano risorgendo sotto l’ala del tedesco, facevano circolare la voce che quelle ruberie erano opera dei banditi, dei ribelli, tutti volgari ladri che rubavano per il proprio tornaconto. Le prime formazioni partigiane, per salvaguardare il loro onore, dovettero operare per eliminare i disonesti. Non occorse molto tempo per “eliminarli” e sicuramente nessun processo. All’epoca non “usavano” ancora le complesse procedure processuali. La colpevolezza conclamata non poteva che avere una soluzione. Con il procedere dell’organizzazione militare clandestina, sorse un altro serio problema, costituito dai delatori e dalle spie. In questi casi, inizialmente, si andava piuttosto per le spicce. Accertata la colpevolezza, la sentenza era automatica. Furono commessi errori? Forse sì, chi può escluderlo. Non erano rispettate tutte le garanzie a difesa dell’imputato? Forse anche questo sarà stato vero. Quel che posso dire è che in quel periodo eravamo alla presenza di un’atmosfera dolorosa, violenta, crudele, infausta e mortale. Sembrava che nessun valore contasse. La vita sembrava che valesse meno di niente. Mi è capitato, qualche volta, di immedesimarmi nei panni di un Comandante responsabile della sicurezza degli uomini del suo reparto. Correre il rischio di commettere “un errore”, oppure mettere a rischio la vita di “tutti gli uomini” del suo reparto? Non sono in grado di produrla, perché l’ho smarrita. Avevo la copia di un documento del Comando Militare Resistenza Piemontese, in cui si disponeva che nei casi dubbi, quando poteva ravvedersi pericolo per la sicurezza del reparto, si doveva procedere all’eliminazione. Soltanto più tardi, giunsero gli ordini che impartivano precise norme di comportamento, che si dovevano sempre osservare nello svolgimento di un processo, dove diventava anche obbligatoria la compilazione di un regolare rapporto scritto. Immaginatevi le difficoltà per un reparto dove, sfortunatamente, il più alto grado d’istruzione era la quinta elementare. (di questo parleremo la prossima volta)
N:B: - scritto di getto e inviato senza rileggere. Scusate i possibili errori.
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