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| Capiamoci bene: io non sto cercando di giustificare proprio nessuno. Se vi furono atti criminali compiuti contro i nostri prigionieri, essi furono crimini di guerra a tutti gli effetti, punto e basta. Io ho semplicemente cercato di inquadrare in fatti in un contesto storico di causa ed effetto, affermando che mi pare un atteggiamento del tutto specioso andare a ricercare i colpevoli di quelle stragi a 75 anni di distanza. La giustizia, oltre che ad essere "giusta", vale a dire amministrata in maniera equa e imparziale, dev'essere anche efficace: efficace nel prevenire e dissuadare il crimine, efficace nell'individuarne i reponsabili, efficace nell'applicazione della pena, efficace nel riconoscimento del risarcimento alle vittime. Partendo dal principio basilare che la responsabilità penale dei fatti è sempre e soltanto individuale, ammesso e non concesso che si riesca a ricostruire le prove dei crimini commessi contro i nostri prigionieri e individuarne i con certezza i responsabili (cosa che, temo, richiederebbe alcuni anni), non credo che traducendo in tribunale in manette una mezza dozzina di vegliardi nonuagenari si faccia sfoggio di particolare intelligenza: a me parrebbe più un comportamento dettato da rancore e frustrazione, se non da vero e proprio spirito di vendetta, piuttosto che un esempio di rigore e di giustizia. Se per 75 anni, per svariate ragioni che non sto qui ad enumerare, non è stato possibile individuare e punire i responsabili di quei crimini, mi sembra completamente inutile farlo propria ora che vittime e carnefici sono tutti affratellati nel comune abbraccio della morte. Quanto ale cosidette "scuse ufficiali", ho già espresso la mia opinione e non intendo tornare sopra l'argomento. Ciò che mi infastidisce maggiormente in tutti questi discorsi che traboccano di supponente indignazione è che si è sempre pronti ad emettere sentenze e ad attribuire colpe a destra e a manca e non ci si preoccupa mai, o quasi mai, di ammettere quali siano stete le NOSTRE autentiche responsabilità nello svolgimento dei fatti. Chi mandò i nostri soldati in Russia? Con quale pretesto mettemmo piede in armi in terra straniera se non per non onorare una sciagurata alleanza che condusse il nostro Paese alla rovina? Chi ordinò, chi preparò, chi diresse quella spedizione che si tradusse in un tragico disastro militare? Quando nel luglio del 1942 l'ARMIR arrivò in Russia, i nostri stati maggiori si erano già giocati ogni residua reputazione perdendo tutte le nostre colonie in AOI, arrancando pietosamente sui monti della Grecia e dell'Albania e subendo le batoste degli inglesi in Africa Settentrionale: c'era bisogno di ulterori prove per dimostrare che non avevamo i mezzi per condurre quella guerra disgraziata? Sono perfettamente d'accordo nel dire che se i nostri prigionieri fossero stati trattati correttamente in buona parte avrebbero riviste le nostre famiglie a guerra finita, ma sostengo anche che se quegli uomini non fossero stati spediti a morire in Russia da un regime borioso e guerrafondaio è molto probabile che i nostri soldati le loro famiglie non le avrebbero neppure lasciate. E sfido chiunque a contraddirmi su questo punto.
In secondo luogo, lungi da me affermare che i vincitori sono belli e buoni e i perdenti figli di nessuno, anzi, mi sembra di aver affermato proprio il contrario. Ho citato il caso della Polonia proprio per spiegare i polacchi non furono solo un popolo romantico e particolarmente sfortunato ma che la nazione polacca non esitò, quando le circostanze storiche lo permisero, di comportarsi da aggressore: questo spiega l'accanimento con il quale i sovietici si rivalsero nei loro confronti. E facciamo bene attenzione, per cortesia, al significato delle parole: ho detto "spiega", non ho detto nè "giustifica", nè tanto meno "assolve".
Sulle vicende relative alla guerra civile tra rossi e bianchi in Unione Sovietica, ho letto proprio di recente un ponderoso volume: come tutte le guerre civili, fu un conlfitto brutale, nella quale si commisero atti di crudele efferatezza da una parte e dall'altra, sia nei confronti delle truppe coinvolte che della popolazione civile inerme che, come sempre, ebbe da soffire i patimenti maggiori. La Russia zarista non era uno stato omogenero, ma era un vero e proprio impero che estendeva il suo dominio s'un paese che abbracciava due continenti, l'Europa e l'Asia, assoggettando sotto le sue leggi milioni di abitanti e decine e decine di popoli e di etnie differenti: ucraini, bielorussi, lettoni, estoni, lituani, armeni, kirghisi, turkmeni, tatari, azeri, solo per incominciare a redigere un piccolo elenco... Un immenso mosaico di popoli, di lingue, di religioni, di tribù e di gruppi etnici, nei confronti dei quali gli zar si comportavano come imperatori dell'antichità, circondati da una corte elitaria e sfarzosa, investiti di potere di vita e di morte sopra i loro sudditi, innalzati al rango di entità semi-divine da parte della Chiesa Ortosossa osannante. Quando la Russia zarista implose sotto i colpi della rivoluzione, immediatamente quel vasto e disomogenero impero cominciò a disgregarsi sotto le spinte autonomiste delle varie regioni: i bolscevichi prima incoraggiarono il risorgere dei nazionalismi locali come tatticismo politico per rastrellare consensi attorno alla propria causa, successivamente passarono a condannare e a reprimere con le armi i movimenti indipendentisti quando essi rischiarono di allontanarsi e di sfuggire alla disciplina rivoluzionaria di partito. Questo accadde in particolar modo con le popolazioni cosacche de Don, del Caspio e della Crimea e con il popolo ucraino che aveva sempre rivendicato una fiera tradizione autonomista. E poichè in guerra vale il principio che il nemico del mio nemico è mio amico, è naturale che molte di quelle genti, dopo aver sperimentato la violenza delle armate trozskiste e prima di esse il soffocante abbraccio del regime zarista, accolsero i tedeschi come liberatori, così come d'altronde accolsero da liberatori le truppe francesi, inglesi, americane, ceche, addirittura giapponesi ed italiane che combatterono con i loro corpi di spedizione a sostegno delle armate bianche salvo poi poi piantarle bellamente in asso una volta tramontate le fortune della controrivoluzione. La disgregazione dell'Unione Sovietica avvenuta dopo la caduta del muro di Berlino, i violenti conflitti armati esplosi nelgi ultimi decenni in Ucraina, in Ossezia, in Georgia, in Cecenia, hanno tutti una matrice storica ben precisa e individuabile, fanno parte di una sorta di invariante storica che ha segnato le vicende della Russia per secoli e che hanno la loro precisa origine nell'impronta autocratica sotto il cui segno è sorta e si è sviluppata l'egemonia dinastica del regno degli zar. Lo stalinismo sovietico non ha fatto altro che riverniciare con un diverso colore quei vecchi disegni di predominio imperiale, sostituendo l'aquila dei Romanov con la falce e martello, e Vladimir Putin a sua volta non è che l'ultimo rampollo di quella autorevole schiatta, laddove l'oligarchia finanziaria del denaro ha sostituito il potere delle gerontoburocrazie di partito che a loro volta scalzarono l'aristocrazia dei nobili nell'eterno gioco della scalata al potere.
Dividere la Storia tra buoni e cattivi è soltanto un esercizio puerile. Comprenderne le dinamiche, analizzare le cause, scavare a ritroso nel tempo per rintracciarne la trama e il filo conduttore è invece utile, indispensabile, e aggiungerei persino appassionante, sia per ottenere la comprensione del passato sia per interpretare correttamente e oggettivamente la realtà del presente. Ma specialmente, studiare, capire e comprendere la Storia dovrebbe ad evitare di cadere nella demagogia di quelle semplificazioni manicheistiche che vanno oggi tanto per la maggiore in un mondo succube della glebalizzazione di massa e dei sovranismi da campanile, e di cui certe volte avverto gli echi anche tra gli interventi pubblicati su questo forum.
RIP-STOP
Edited by rip-stop - 21/9/2018, 15:31
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