Lo Sten - secondo Carlo Mazzantini

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WW2
view post Posted on 30/9/2021, 16:47 by: WW2
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Probabilmente per molti di voi nulla di nuovo. Forse sto solamente seguendo lo stesso percorso che in tanti di voi, con le stesse pietre miliari sull’argomento, avete affrontato decenni fa, tramite letture, ricerche, testimonianze dirette e personali. Finalmente la mia attenzione si è catalizzata sul celebre romanzo di Carlo Mazzantini, che non ha bisogno di una mia recensione per essere di default già considerato una fonte importante per chi si attinge ad analizzare quel determinato periodo storico. Sono però rimasto a tal punto colpito da una descrizione così particolare di un aspetto di quella guerra che ho sentito il bisogno istintivo di condividere il passo qui con voi.

“E invece, il vero protagonista di quella guerra fu proprio l’arma più brutta e più povera. Uno spezzone di canna saldato su un pezzo di lamiera stampata, corredato di un mollone e di un percussore. Tutto lì.
Lo Sten.
La prima volta che ne avemmo uno per le mani, raccolto accanto al cadavere di uno di quegli altri, Carletto Ferrari lo prese su, e dopo averlo rigirato per un paio di volte, lo riconsegnó con una smorfia: << Sono già liberi! Con quella roba lì, la guèra l’hanno già perduta>>.
Ma la guèra di Carletto e di Bonazzoli, la guerra delle armi belle, le fanfare, le sbornie coi compagni, il fronte, i capisaldi, era già finita da un pezzo. Non ne restava che quello strascico lì. Ed essa aveva prodotto quella che, più che a un’arma, somigliava a un rozzo utensile, concepito appunto per quella funzione di scarto: chiudere quella partita, liquidarne le storie rimaste. Uno strumento che nella sua scheletricità esprimeva tutto il rifiuto di quanto c’era di falso, di ipocritamente cavalleresco, di retorico, in quel fatto di uccidere un uomo: ti apposti dietro un albero e tratratrà: steso (Sten da stendere). Uno di meno: fai una tacca sul calcio e te ne vai. Tutto quello che ci aspettava.
Da un certo momento in poi cominciarono a piovere a migliaia dal cielo quei catenacci di latta. Vennero giù a riempire valli e periferie di crepitìi rabbiosi, di scariche corte e vendicative. Ricordo che la riconoscevo immediatamente la raffica di uno Sten. Era un poco più lenta di quella del mitra, più scandita, fatta di detonazioni leggermente più sorde, ma non per questo meno ossessiva con quella pretesa di vendetta, di resa dei conti: è per te camerata fascista, piombo e basta, senza sprechi, fronzoli, nè rincrescimenti. Poi lo butti via, come un vecchio apriscatole arrugginito o una lattina di birra vuota. Il primo oggetto di consumo che conoscemmo. E quando poi li vedemmo sfilare per le vie delle città, già ripuliti, in quelle uniformi scovate all’ultimo momento in qualche magazzino militare, ravvisammo nello Sten la sola nota autentica, e in quel contesto, stonata, e già anacronistica.”


Opinione personale, ovviamente, ma ho l’impressione che parole migliori per descrivere quest’arma così evocativa non potessero essere espresse in alcun altro modo. Non si tratta di descrivere il pezzo in sè, si tratta di mettere per iscritto tutte quelle immagini, quelle storie, quelle vicende che facevano da cornice al suo utilizzo. Quasi l’esser riuscito ad inserire correttamente nel suo contesto l’arma da un punto di vista sociologico prima ancora che storico e militare. Ha colto perfettamente le associazioni mentali che si collegano subito al pensiero di tale strumento.
 
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