| Cara Francesca,
ecco la seconda ed ultima parte del capitolo che ho cominciato ieri a trascriverti. Come vedrai le ultime righe sembrano scritte apposta per tua madre...
A mano a mano che l’ottobre avanzava, il monumento si elevava. progrediva la costruzione del muro di cinta, si aprivano i viali fra le tombe abbinate circondate da riquadri in muratura. I lavoratori si impegnavano a rendere il più possibile, con grande slancio, con l’orgoglio di onorare i nostri caduti.
Nulla di triste nel complesso di questa impresa che, fin dallo stato di cantiere ebbe una impronta di sentimentalismo. Ricordo, a questo proposito, che una notte fui costretta a passare per quel campo e ne riportai un’impressione di misticismo e di elevazione spirituale, anziché di opprimente tristezza. Cessato era il fervore del lavoro e la luce argentea della luna piena dava un aspetto di poesia ad ogni cosa. Il monumento era arrivato a poco più della metà della sua altezza e sul terreno di cui solo in una piccola parte si delineavano i tumuli recenti contrassegnati da croci, si vedeva un ammasso di utensili, carriole e mucchi di terra e materiale da costruzione. Tutto era invaso dall’azzurrognola luce lunare. Perfino un gruppo di bare, presso l’ingresso, che erano state trasportate nella giornata da luoghi lontani, non facevano triste impressione; come in un’ultima parata, quei feretri attendevano allineati l’ultima espressione della vita collettiva: una dignitosa sepoltura. Parevano volessero dire: “Veniamo da un lungo cammino. Lasciammo le famiglie, che già avevano provato le angustie di nostra assenza per altre guerre, abbiamo traversato territori sconfinati di questo fronte, ci siamo battuti in inverno nelle più aspre difficoltà, a primavera abbiamo ripreso le armi, in estate abbiamo trovato la morte in duri combattimenti. Ed ora eccoci qua a ritornare come in una caserma per il sonno eterno. I nostri compagni la prepararono per noi, non ci hanno abbandonato…”.
Ricordo la foga di lavoro degli ultimi giorni che portò al compimento dell’opera nell’epoca prefissa. Come per magia, il cimitero fu compiuto in un mese. Il due novembre ci fu la cerimonia inaugurale. Fu semplice nella sua solennità e talmente commovente che non so davvero ridire.
Al tramonto di una limpidissima giornata, in una gloria di luci, in mistico silenzio, rappresentanze militari e personale del Centro chirurgico si riunirono nei viali del nuovo cimitero. Ad uno squillo di tromba entrarono nel sacro recinto le autorità militari italiane e germaniche che si disposero presso l’altare. A questo facevano contorno alcuni soldati e quattro Sorelle (crocerossine) nella rigida posa dell’attenti. Se non fosse stato il vento che muoveva i loro veli, le bianche figure che avevano qualcosa di ieratico, sarebbero sembrate statue marmoree facenti parte del monumento. Il vento agitava anche le due grandi bandiere a complemento della poesia del quadro.
Il cappellano militare Padre Salsa, mutilato della Grande Guerra, benedì il sacro luogo e celebrò un rito funebre. Portata da alcune Sorelle, una statuina della Vergine, che fu chiamata Madonnina della Steppa, venne benedetta e posta sull’altare. Intanto nostri aerei volteggiavano sul cimitero gettando fiori sulle tombe. Una corona cadde a poca distanza dalla porta d’ingresso e, raccolta da due giovani ufficiali dell’Aeronautica, fu deposta a piè dell’altare. Un suono di campane si diffuse nell’aria con lenti rintocchi. Quel suono, così inatteso nel paese che non ha richiami al culto, riportava la nostra mente alle nostre campane, che da tanto tempo non sentivamo. Ad esse seguirono le note dolci dello Stabat Mater di Rossigni e la marcia funebre di Wagner. Erano con sapiente artifizio provenienti da un carro sonoro e chiusero l’austera cerimonia col loro mistico fascino.
Lentamente le autorità uscirono, soffermandosi presso il cancello e dopo un minuto di raccoglimento, salutarono militarmente lasciando in silenzio il sacro recinto.
E dopo di loro, tutti lasciarono i posti per aggirarsi per i viali. Anche le Sorelle si trattennero in preghiera fra quelle tombe.
Si attenuarono intanto le luminosità infocate del tramonto, impallidirono i riflessi dorati, avanzarono le ombre della sera. A mano a mano che gli azzurri cupi di queste si sovrapponevano sulle trasparenze giallo pallide dell’ultimo chiarore solare, si vedevano brillare le prime stelle. Solo sull’orizzonte, sotto un velame di vapori violacei, si mantennero a lungo pennellate rossastre.
Ad un tratto, come per incanto, gli archi del muraglione si incendiarono di bagliori di luce di torce che illuminarono il luogo dimodochè si coté rimanere fino a tarda sera fra quelle tombe.
Ognuno aveva nomi da ritrovare, preci da innalzare nel proprio raccoglimento.
Ignoti o conosciuti quei nomi illuminati dal guizzar delle torce, tutti erano degni dell’omaggio, e fu spontaneo omaggio, fu bisogno di sentirsi vicini a quegli scomparsi degni di onorata memoria.
Nel profondo del mio animo, nella solennità del momento, prendeva a poco a poco il sopravvento il pensiero per le famiglie di quei caduti, specie per le loro donne.
Quante avrebbero voluto trovarsi al mio posto per averli potuti assistere, per poter pregare oggi sulle loro tombe! Avrei potuto dir loro in quel momento: “No. Non sono abbandonati i vostri cari. Questo è un pezzo di terra della loro Patria”.
Ciao
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