Una tragedia tra le tante, Diario di Mario Lupi

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giusepin
view post Posted on 28/1/2016, 19:21 by: giusepin




Con il Diario di Mario Lupi abbiamo visto la fine del Laconia ma crediamo utile e opportuno far conoscere anche gli antefatti di quello che fu un prestigioso transatlantico. Ed ecco qui.

LA TRAGEDIA DEL “LACONIA”
Il Laconia: un transatlantico richiamato alle armi
L’affondamento del Laconia provocò, solo tra gli italiani a bordo, un numero di vittime pressoché uguale a quello del Titanic. Tuttavia non ha lasciato, in Italia, un’impronta profonda sulla memoria storica collettiva, né ha suscitato un particolare interesse storiografico. Eppure, oltre che per la drammaticità dei fatti, l’evento è degno di essere ricordato e analizzato, in quanto implicò gravi conseguenze sul successivo svolgimento della guerra per mare.
Quando venne silurato, sabato 12 settembre 1942, il Laconia era una nave adibita al trasporto truppe. Ma non era sempre stato così. Il Laconia era nato come transatlantico di linea, fatto costruire, nel 1921, dalla compagnia di navigazione britannica Cunard (1). Venne inaugurato il 25 maggio 1922, salpando da Southampton e raggiungendo New York.
La scelta del nome corrispondeva al gusto britannico per le intitolazioni geografiche dal sapore antico o esotico: Morocco, Lusitania, Scythia, Franconia… In realtà, non si trattava di un nome molto ben augurante: sino a pochi anni prima, era esistito un altro Laconia, affondato durante la Prima Guerra Mondiale.
Il transatlantico era lungo oltre 180 metri e raggiungeva una larghezza massima di 22. Dal ponte si levavano due alberi e, al centro, troneggiava una grande ciminiera. Navigava alla velocità massima di 16 nodi, vale a dire poco meno di trenta chilometri orari. Poteva trasportare sino a 2200 passeggeri, anche se, di fatto, mediamente ne imbarcava duemila.
Il Laconia divenne famoso, nel 1923, per essere stato la prima nave della Cunard a compiere il giro del mondo, impresa che lo portò a toccare ventidue porti in quattro mesi di navigazione. Trascorse il resto degli anni Venti navigando tra Liverpool, New York e Boston; qualche volta, intraprese l’attraversata salpando da Amburgo. Nel decennio successivo fu utilizzato anche come nave da crociera: le cartoline d’epoca ce lo mostrano con lo scafo dipinto di nero, le strutture di coperta bianche, la ciminiera rossa.
Furono, quelli, gli anni di maggior fortuna del Laconia, nell’ “epoca d’oro delle navi di linea” (2). I ponti della prima classe si popolavano di turisti altolocati e signore eleganti, in un’atmosfera che ha ispirato spesso il cinema e la letteratura. Uno dei miti elaborati dall’immaginario del Novecento è stato proprio la nave da crociera, che naviga beatamente verso la catastrofe. Catastrofe che, infatti, incombeva. Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, i lussuosi transatlantici vennero richiamati alle armi. Vennero ridipinti di grigio e armati di cannoni.
Trasformati in navi da trasporto, divennero, a tutti gli effetti, obiettivi militari, sebbene l’equipaggio fosse composto da marinai della Marina Mercantile; e in molti colarono a picco, centrati dai siluri tedeschi. A volte, anche da quelli italiani. Da Liverpool, il Laconia venne trasferito a Portsmouth, ove si procedette alla sua militarizzazione. Fu armato di cannoni e munito di cariche esplosive di profondità, con le quali, almeno, tentare di difendersi dai sommergibili. Dal 1939 al 1941 trasportò materiale bellico. Tra il giugno e l’agosto del 1941 subì nuove modifiche e fu adibito al trasporto truppe (3.) Nell’estate del 1942, mentre si combatteva la fase decisiva della guerra per il controllo del Nordafrica, ricevette l’incarico di imbarcare soldati italiani fatti prigionieri dai britannici in quel settore.
Il comandante della nave era, allora, Rudolph Sharp, un autentico lupo di mare che dimostrava più dei suoi cinquantasette anni (4.) Originario di una famiglia di marinai proveniente dalle Shetland, isole spazzate dalle onde del Mare del Nord, aveva trascorso la vita sui ponti dei più prestigiosi transatlantici del tempo. All’inizio della guerra, a Sharp venne affidato il Lancastria, che, prima ancora di concludere l’ultima crociera, era stato armato e riconvertito in nave trasporto truppe. Sharp traghettò in Norvegia soldati del contingente inviato dalla Gran Bretagna a fronteggiare l’invasione tedesca. Neanche un mese dopo, crollate le difese norvegesi, doveva ritornare nella terra dei fiordi per raccogliere i superstiti. Il 14 giugno 1940, Rudolph Sharp era a Liverpool. Qui ricevette l’ordine di salpare nuovamente per portare in salvo le truppe inglesi reduci dalla Francia, anch’essa sconfitta e invasa dall’esercito tedesco: le disposizioni ricevute lo autorizzavano a imbarcare quanti più uomini possibile, ben al di là del limite di passeggeri previsto. Così, nel pomeriggio del 17 giugno, il Lancastria era stracarico di persone, quando fu attaccato da cacciabombardieri tedeschi Junkers 88.
Nel più assoluto silenzio, un’infinità di occhi fissò le bombe che cadevano dal cielo. La nave colò a picco. Il numero esatto delle vittime non è stato accertato, ma si calcola che non fu inferiore ai quattromila morti. Il capitano Sharp venne ripescato, vivo, in mezzo a grandi chiazze di combustibile. Nessun comandante della Marina britannica aveva mai avuto tante vittime fra i propri passeggeri. E, per lui, non era ancora finita.

Nelle fauci dell’Orso Polare
Non appena Sharp fu in grado di riprendere servizio, ricevette di nuovo il comando di una nave. Quella nave era, appunto, il Laconia. Nel luglio del 1942, Sharp imbarcò i prigionieri italiani, ai quali si aggiungevano militari britannici di diversa provenienza. Per usare le parole del marinaio James McLoughlin, sul transatlantico si accalcava “una mescolanza di umanità, che solo una guerra può mettere assieme.” (5 ) Sull’esatta composizione di quella mescolanza, i dati sono discordanti, anche perché passeggeri salirono e scesero dalla nave nel corso dei numerosi scali.
Dopo l’ultimo scalo, che avvenne a Città del Capo, sul Laconia viaggiavano oltre 2700 persone, molte di più, dunque, rispetto al numero previsto di passeggeri. Di esse, i prigionieri italiani erano 1840: in maggioranza soldati catturati nel corso degli ultimi combattimenti. Provenivano dalle divisioni Ariete, Brescia, Pavia, Trento, Trieste e Sabratha. Mario Lupi fornisce un’importante precisazione: alla partenza, i prigionieri erano 2640, ma 800 di essi erano stati sbarcati a Durban (6 ) e avviati verso campi di prigionia in Sudafrica. I 1840 rimasti a bordo eran destinati alla Gran Bretagna. A loro si aggiungevano oltre 800 passeggeri della nave, in primo luogo i membri dell’equipaggio; quindi una compagnia di soldati polacchi incaricati di sorvegliare i prigionieri (dopo l’invasione tedesca della Polonia, profughi ed esuli polacchi erano stati aggregati all’esercito inglese); infine vi erano militari e civili britannici, che, per varie ragioni, venivano richiamati in Gran Bretagna dall’Africa. Qualcuno portava con sé la famiglia: le donne e i bambini a bordo erano tra ottanta e novanta.
La nave salpò il 29 luglio 1942. Pigiati nelle stive, gli italiani soffrivano il caldo anche di notte. Due volte al giorno erano condotti in coperta, dove le guardie polacche spruzzavano loro addosso violenti getti d’acqua. Il rancio consisteva in pochi cucchiai di brodaglia e semolino, e poco più. La rotta prevedeva di attraversare il Canale di Suez e circumnavigare l’Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza e risalendo l’Atlantico sino a raggiungere la Gran Bretagna. Il transatlantico, dunque, discese lungo il Mar Rosso, toccò Aden il 1° agosto e vi sostò un giorno; poi Mombasa, in Kenya, il 10 agosto, con una sosta di qualche giorno, e Durban, in Sudafrica, il 22 agosto. Un nuovo scalo a Città del Capo, il 28 agosto, quindi il Laconia affrontò le acque dell’Atlantico, infestate dai sommergibili.
L’Atlantico era uno dei principali teatri della guerra sottomarina. In quei mesi, l’epicentro era nel Nord, da dove transitavano i convogli provenienti dagli Stati Uniti, intervenuti nel conflitto nel dicembre precedente. Tuttavia, sommergibili tedeschi pattugliavano anche l’area centrale e meridionale dell’Oceano; anzi, proprio in quel mese di agosto, mentre il Laconia incrociava al largo dell’Africa Orientale, cinque di
essi erano stati sguinzagliati verso Sud, nel quadro di un’operazione denominata Orso Polare. L’ordine proveniva dall’ammiraglio Karl Doenitz, il comandante in capo della flotta sottomarina tedesca. Doenitz aveva iniziato la sua esperienza di sommergibilista già nella Prima Guerra Mondiale.
Dopo l’avvento del Nazismo in Germania, era stato uno degli artefici del riarmo della Marina tedesca. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si era dimostrato un geniale stratega nell’uso dei sommergibili contro le navi nemiche, tanto da guadagnarsi la totale stima di Hitler: questi, infatti, nel 1943 lo promuoverà a comandare tutta la Marina. Nel 1945, infine, Doenitz succederà allo stesso Hitler, suicida, come Führer della Germania, ma rimarrà in carica il tempo necessario a firmare la resa.
Nel 1942, peraltro, i sommergibili di Doenitz cominciavano a dover fare i conti con la contromossa escogitata dalle forze britanniche e statunitensi. Erano infatti stati messi a punto aerei attrezzati per dar loro la caccia, muniti di radar e bombe di profondità: quando la vedetta di un sommergibile ne avvistava uno, le speranze di fare in tempo a completare le operazioni di immersione e mettersi così al sicuro risultavano piuttosto ridotte. Da qui, una serie crescente di perdite e le conseguenti preoccupazioni per la sicurezza dei natanti.
Dopo quarantacinque giorni di navigazione, il Laconia si stava dunque inoltrando in acque sempre più insidiose. Sharp ordinò di procedere navigando a zig-zag, nell’esile speranza che tale manovra elusiva potesse creare difficoltà a un possibile aggressore. Il 12 settembre 1942 la nave si trovava in un punto intermedio fra l’isola di Ascensione e le coste occidentali dell’Africa. Quel giorno, un marinaio di vedetta sul sommergibile tedesco U 156 avvistò all’orizzonte il pennacchio di fumo che si levava dalla ciminiera del transatlantico. James McLoughlin ricorda che quel fumo gli era subito sembrato eccessivo, tale da poter essere fin troppo facilmente notato a distanza. Ne aveva parlato ai marinai, ma questi avevano replicato che non ci si poteva proprio fare niente, la nave era antiquata e fumava così (7).
L’U 156 era uno dei sommergibili indirizzati verso Sud nel quadro dell’Operazione Orso Polare. Uscito l’anno precedente dai cantieri navali di Brema, apparteneva al tipo IX C, perfezionato alla fine degli anni Trenta: era lungo oltre settantacinque metri e imbarcava una cinquantina di marinai. Il comandante era il capitano Werner Hartenstein, un brillante ufficiale di trentaquattro anni. Era nativo di Plauen, in Sassonia, di una città, cioè, situata ai piedi delle montagne nel cuore dell’Europa, ma era affascinato dal mare. Entrato giovanissimo nella Marina Militare tedesca, aveva iniziato la carriera nel 1928, prima su un incrociatore leggero, quindi nella flotta sottomarina. Aveva preso parte alle operazioni navali condotte dalla Germania in appoggio ai franchisti durante la guerra civile in Spagna, guadagnandosi la prima decorazione; altre ne aveva collezionate nel corso della Guerra Mondiale (8).
L’esperto Hartenstein puntò il suo binocolo e riconobbe la sagoma del cannone di prua, il che, oltre alla rotta a zig-zag, confermava che si trattava di un trasporto militare britannico (9): un obiettivo ideale da aggiungere alla lunga lista di navi – si avvicinava a quota venti – già affondate dal suo sommergibile. Ordinò, pertanto, di seguire il fumo della ciminiera mantenendosi a distanza di sicurezza. A sera, col favore delle tenebre, l’U 156 si sarebbe avvicinato alla preda, sino a raggiungere la posizione utile per sganciare i siluri. Le ore del 12 settembre trascorsero così: il Laconia navigava, il predatore lo seguiva senza perderlo mai di vista.
Non appena fu buio, l’U 156 si mise in posizione. Intorno alle 20.00, Hartenstein ordinò il fuoco. Un siluro guizzò verso la nave. Impiegò pochi minuti a centrare il bersaglio. “Sentimmo improvvisamente un tremendo colpo proveniente da sotto la nave con un rimbombo pauroso che ci fece traballare.”, ricorda Mario Lupi. “Una tremenda esplosione”, gli fa eco James McLoughlin, che stava scendendo i corridoi in cerca delle cucine, “il boato era da stordire. Mi sentii come se fossi stato colpito sulla testa da una poderosa botta. Mi fece girare su me stesso, mi sollevò mi scaraventò contro un pomello d’acciaio, lasciandomi senza fiato sul pavimento.” (10) Al cadetto di Marina Albert Goode, all’epoca di appena sedici anni, è rimasto impresso l’odore di cordite che si diffuse ovunque11. Hartenstein ordinò di sganciare un nuovo siluro. L’obiettivo venne colpito per la seconda volta: il viaggio del Laconia era terminato.
“Allora scoppiò il pandemonio”, ricorda McLoughlin.

continua ...
 
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