Una tragedia tra le tante, Diario di Mario Lupi

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giusepin
view post Posted on 29/1/2016, 10:36 by: giusepin




proseguo con il Laconia.

La nave dei folli
Un prigioniero italiano, Bruno Beltrami, ricorda che “lo scoppio provocò la morte istantanea di centinaia di soldati, le stive superiori crollarono per l’esplosione e parte degli uomini fu inghiottita in quella bara che non dava nessuna possibilità di scampo per la furia dell’acqua che entrava con un rumore assordante e forza violentissima. La nave scricchiolò e in quel caos di rottami, di urla selvagge, di pianti, di disperazione, perse la vita anche un mio caro compagno, che tenevo per mano. Era il sergente maggiore Leandro D’Onofrio, era romano, un caro ragazzo. Mi scivolò, e scomparve nella stiva, che rumoreggiava come una cascata.” (12)
Di sopra, nei corridoi, avvenivano manifestazioni di terrore e di isteria. “La gente urlava e si lamentava”, ricorda McLoughlin, “tutti spingevano e si travolgevano e si calpestavano e correvano nel buio” (13). La nave incominciò a inclinarsi su un fianco, facendo rotolare sui pavimenti uomini e cose. La prua veniva sommersa dalle onde.
Chi, fra tutti, mantenne una gelida calma, fu il comandante Sharp: diede l’ordine di abbandonare il Laconia e fece lanciare l’SOS, cioè la richiesta di soccorso in caso di attacco da parte di un sommergibile.
Infine si trasferì sul ponte a dirigere le operazioni, fumando impassibile. Le esplosioni dei siluri avevano reso inutilizzabili alcune scialuppe, il cui numero era comunque insufficiente ad accogliere tutti i naufraghi. Sulle prime scialuppe, Sharp fece salire le donne, i bambini e i feriti. Sulle altre, il personale civile e militare e l’equipaggio. In preda al panico, i passeggeri si gettavano verso le scialuppe, rivelandosi poi incapaci di manovrarle. Per i prigionieri non c’era spazio. Qualcuno, presumibilmente lo stesso comandante, considerò con logica fredda che, se fossero saliti in coperta, gli italiani si sarebbero precipitati in massa sulle scialuppe, portando il caos al massimo; e, con logica altrettanto fredda, e spietata, concluse che per salvare i britannici era necessario far chiudere le stive.
Le guardie polacche ricevettero l’ordine di tenere lontani i prigionieri dai cancelli. L’enorme folla, cercando di fuggire da quella trappola mortale, si accalcò verso le vie d’uscita, premendo sinché le porte furono scardinate. Altri, tra i quali Mario Lupi, sgusciarono fuori passando per le prese d’aria. Le guardie cercavano di contenerli a colpi di baionetta, qualcuno sparò. Le scialuppe, intanto, venivano calate una dopo l’altra. In coperta, Bruno Beltrami assistette “a scene di pazzia, di dolore e di panico forse ancora più spaventose: le lotte a coltello per ottenere un posto sulle scialuppe, schioppettate addosso ai prigionieri che cercavano scampo nelle lance, caccia all’uomo che nella buia notte poteva essere un prigioniero, scialuppe che precipitavano in mare perché mal manovrate e che si disintegravano a contatto con l’acqua; e tutti i componenti a lottare con il mare per la salvezza, altre che, cariche di uomini, rimanevano agganciate al paranco scaricando in mare tutto il loro carico umano addosso ad altri naufraghi che a stento stavano a galla.” (14)
Quando l’ultima scialuppa fu in mare, Rudolph Sharp lasciò il ponte. Non aveva intenzione di sopravvivere per la seconda volta a una catastrofe nautica. Si diresse nella propria cabina e attese lì di essere inghiottito dall’oceano.
L’agonia del Laconia ebbe termine intorno alle ore 22. La nave fu spinta verso l’alto dall’esplosione delle caldaie, quindi si inabissò, trascinando con sè circa 1400 prigionieri italiani, alcuni già morti, altri ancora vivi. Centinaia di superstiti galleggiavano sballottati dalle onde, aggrappati alle zattere o alle cinture di salvataggio. In mezzo all’oceano, le prospettive che si aprivano per loro erano di essere assaliti dagli squali o di essere sommersi dalle onde. Neppure i naufraghi sulle scialuppe, in assenza di soccorsi, avevano realistiche speranze di arrivare sino alla terraferma.
L’U 156, intanto, si era mosso. Dopo aver atteso che l’obiettivo fosse colato a picco, ad Hartenstein rimaneva ancora un compito da svolgere, prima di poter considerare conclusa la missione: intercettare le scialuppe e catturare il comandante della nave e il capo macchinista, in modo da sottrarre alla Marina avversaria personale specializzato. Sarebbero stati prelevati anche ufficiali di alto grado, qualora ve ne fossero stati.
In tale circostanza, poteva accadere che i marinai del sommergibile affondatore prestassero assistenza ai naufraghi della nave da loro stessi affondata: medicavano i feriti, consegnavano viveri e acqua, davano indicazioni per raggiungere le coste più vicine. Tra i sommergibilisti italiani, ebbe grande risonanza il caso di Salvatore Todaro, comandante del Cappellini, che, dopo aver silurato un convoglio belga nel mare in tempesta, prese a rimorchio la zattera dei naufraghi, fermandosi a recuperarla quando il cavo si spezzava; infine caricò a bordo i belgi e li sbarcò al sicuro. Era il tentativo, non sempre semplice, di trovare un punto d’equilibrio tra la dimensione disumanizzante della guerra e la conservazione del senso di umanità, tra lo spirito del guerriero e quello del marinaio, per il quale si deve sempre soccorrere un naufrago.
Avanzando in cerca delle scialuppe, i marinai tedeschi si resero conto che le acque brulicavano di uomini che lottavano disperatamente per restare a galla. I primi che furono raccolti e issati sul ponte del sommergibile spiegarono di essere prigionieri italiani. L’Italia era alleata della Germania, pertanto Hartenstein ordinò subito di soccorrerli.

Ufficiale e gentiluomo
I marinai tedeschi incominciarono a ripescare i naufraghi che annaspavano attorno al sommergibile. Gli uomini in buone condizioni venivano lasciati sul ponte, i feriti, invece, trasportati all’interno per essere medicati. Hartenstein, intanto, si mise in contatto con la centrale operativa della flotta sottomarina, che si trovava a Parigi, nella Francia occupata.
Segnalò: “Affondato inglese Laconia purtroppo con 1500 prigionieri italiani. Sino ad ora 90 salvati. Chiedo ordini.”
Immediatamente venne informato l’ammiraglio Doenitz. Questi chiese maggiori dettagli sull’accaduto e si consultò con i suoi più stretti collaboratori. Tutti erano preoccupati circa i rischi cui l’U 156 si esponeva, impegnandosi in un’operazione di salvataggio; d’altra parte la presenza di centinaia di soldati appartenenti a un esercito alleato la rendeva necessaria. Nella zona la Marina tedesca disponeva soltanto di sommergibili.
In base alle carte nautiche, sulle quali venivano costantemente aggiornati gli spostamenti di tutti i mezzi, i più vicini risultavano essere l’U 506 e l’U 507, entrambi della classe IX C, in azione nel Golfo di Guinea. (15) A una velocità massima che superava di poco i trenta chilometri orari in emersione, avrebbero impiegato almeno due giorni per unirsi alle operazioni di riscatto.
Doenitz rese noti i fatti alla centrale operativa dei sommergibili italiani, denominata Betasom, con base a Bordeaux. In quel momento, era in corso una missione nell’Atlantico centro-meridionale: il sommergibile Barbarigo era diretto verso il Sudafrica, coadiuvato dal Cappellini, che avrebbe dovuto rifornirlo di carburante. La missione venne annullata. Il Cappellini fu dirottato verso l’U 156 e il Barbarigo proseguì solo, riducendo il proprio raggio d’azione. (16)
Per completare l’operazione, fu interpellato il governo collaborazionista francese, insediato a Vichy sotto controllo tedesco. Il governo di Vichy disponeva di alcune navi nel porto di Dakar, in Senegal, che salparono per imbarcare i naufraghi recuperati dai sommergibili.
Nel frattempo, Hartenstein era sempre all’opera. Non si stava limitando a soccorrere gli italiani, ma prestò assistenza anche ai britannici. Le donne e i bambini furono prelevati dalle scialuppe e portati al coperto, dentro l’U 156. Il ponte del sommergibile si riempiva di naufraghi, che si accalcavano in tutto lo spazio disponibile, mentre altri ingombravano i locali e i corridoi sottocoperta. Prima dell’alba, Hartenstein prese una decisione ardita: fece trasmettere in chiaro, cioè non in codice, un SOS in inglese: “se qualsiasi nave soccorrerà i naufraghi del Laconia affondato, io non la attaccherò, purché non sia a mia volta attaccato da navi o aerei. Ho raccolto 193 uomini.” Diede le coordinate della sua posizione e si firmò come “sommergibile tedesco.”
Estesa l’operazione su più vasta scala. Doenitz ordinò ad Hartenstein di rimanere sul posto in attesa degli altri sommergibili. Trasmise inoltre le norme di sicurezza da rispettare, messaggio, questo, ripetuto più volte anche agli altri comandanti: “i sommergibili che partecipano non debbono prendere a bordo che un numero di naufraghi tale da poter rimanere in grado di immergersi e manovrare.”
Le luci dell’alba di domenica 13 settembre illuminarono i segni del disastro. James Mc Loughin, che non aveva trovato posto sulle scialuppe e resisteva sopra una zattera con un compagno, ricorda “decine di cadaveri che galleggiavano a faccia in giù, gonfi e grotteschi rottami dappertutto, scatole e barattoli.” (17) Mc Loughin fu recuperato dall’U 156 in mattinata: il sommergibile continuava a girare in cerca di superstiti, che le onde disperdevano sempre più lontano.
Il marinaio inglese ha lasciato una descrizione di Werner Hartenstein. L’ufficiale indossava una giubba scolorita dal sole e dalla salsedine. Appariva il prototipo del comandante di un sommergibile tedesco: “Era molto magro e abbronzato, con il solco profondo di una vecchia cicatrice che scendeva da una guancia. Aveva labbra sottili, il naso stretto e prominente, lo sguardo penetrante.” Si intrattenne chiacchierando cordialmente in inglese con i due naufraghi.
L’U 156 proseguì la ricerca dei superstiti anche nelle ore successive. Le scialuppe recuperate erano state legate al sommergibile e, a turno, gli occupanti potevano salire a bordo per essere rifocillati. Trascorse così il giorno 13, la notte, poi tutto lunedì 14, e un’altra notte. Si attendeva di scorgere all’orizzonte la sagoma degli altri sommergibili, quella sagoma che, sino a qualche giorno prima, aveva costituito l’incubo di tutti i naufraghi.
L’U 156 comandato da Erich Wurdermann fu il primo ad arrivare, nella mattinata di martedì 15 settembre. Wurdermann, ventotto anni, nativo di Amburgo, navigava sui sommergibili da solo due dei suoi sette anni di servizio. Da quando era al comando dell’U 506, cioè da un anno, aveva dato prova delle sue capacità: nella primavera precedente si era spinto sin nel Golfo del Messico, affondando una nave statunitense dietro l’altra. Quando gli era giunto l’ordine di raggiungere l’U 156, aveva appena silurato un mercantile svedese (18).
L’U 506 affiancò l’U 156. I due comandanti si parlarono al megafono. Vennero quindi tesi alcuni cavi e utilizzati per farvi scorrere sopra un canotto, con il quale, a poco a poco, oltre un centinaio di naufraghi italiani furono trasferiti da un sommergibile all’altro. Mario Lupi era tra loro. Conclusa l’operazione, l’U 506 si allontanò. Nel pomeriggio dello stesso giorno giunse anche l’U 507 comandato da Harro Schacht. Concittadino di Wurdemann, Schacht, trentaseienne, aveva come lui seminato il panico tra le navi americane nel Golfo del Messico. Nell’agosto precedente aveva ripetuto l’impresa a danno della flotta brasiliana, il che spinse il Brasile, all’epoca neutrale, a dichiarare guerra alla Germania.
Infine si aggiunse il Cappellini: era questo lo stesso sommergibile già comandato da Salvatore Todaro, passato successivamente agli ordini di Marco Ravedin. La mattina di mercoledì 16 settembre, i tre sommergibili perlustravano ancora le acque in cerca di altri naufraghi. James Mc Laughin, salito sul ponte dell’U 156, vi trovò il comandante Hartenstein che consumava il rancio. L’ufficiale tedesco conversò con il giovane marinaio inglese e un suo compagno, condividendo il rancio con loro. “Era più di un ufficiale. Era un signore”, scrive Mc Laughin (19). Poco dopo la situazione precipitava.

continua ...
 
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