Una tragedia tra le tante, Diario di Mario Lupi

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giusepin
view post Posted on 29/1/2016, 17:30 by: giusepin




ultima parte

Sparare sulla Croce Rossa
Sembra che, per problemi tecnici, l’invocazione di soccorso lanciata dal Laconia silurato non sia stata captata da nessuno. Il messaggio in chiaro di Hartenstein, invece, giunse a Freetown, ma le autorità britannichelo considerarono uno stratagemma per attirare navi in un’imboscata. Si era in guerra, e cose simili erano successe.
Il giorno 13, comunque, l’Ammiragliato inglese non aveva più dubbisul triste destino del transatlantico. Le navi più vicine disponibili per un’operazione di salvataggio erano due mercantili: l’Empire Haven, alla fonda nel porto di Freetown, e il Corinthian, ancorato a Tokoradi, nel Ghana. Entrambe ricevettero l’ordine di salpare alla ricerca dei superstiti.
Per assicurare loro protezione, i britannici chiesero alle autorità degli Stati Uniti di contribuire alla copertura aerea. Venne così coinvolta nella vicenda la base statunitense di Wideawake, sull’isola di Ascensione. La base era operativa dall’agosto precedente. Il suo campo d'atterraggio doveva servire da scalo per gli apparecchi che, decollati dagli Stati Uniti, erano diretti verso i teatri di guerra d’Africa e del Medio Oriente. Vi era inoltre ospitata stabilmente 1a Squadriglia Mista, composta da caccia P 39 e bombardieri medi B 25, in funzione antisommergibile.
Nessuno di loro, a quanto risulta, individuò i mezzi impegnati nelle operazioni di riscatto. Almeno, sino al giorno 16 settembre, quando si produsse un avvistamento, in circostanze casuali (20).
Il tenente pilota James D. Harden, con due uomini d’equipaggio, stava trasferendo in Africa un quadrimotore B 24 Liberator. Dopo aver fatto scalo all’isola di Ascensione, era ripartito in direzione di Freetown. Improvvisamente, scorse un sommergibile che rimorchiava tre imbarcazioni. Era l’U 156 di Hartenstein. Harden lo sorvolò a bassa quota. Segnali luminosi gli comunicarono in alfabeto Morse che si trattava di un sommergibile tedesco impegnato nel salvataggio di naufraghi. Un altro messaggio, a nome di un ufficiale della RAF imbarcato, confermava quello precedente e avvertiva della presenza di civili. Sul ponte, Hartenstein aveva fatto distendere una bandiera della Croce Rossa.
Harden virò e si mise in contatto con la base di Ascensione. In quel momento, l’ufficiale più anziano di grado in servizio era il capitano Robert Richardson, il comandante della squadriglia mista. Richardson, ventiquattrenne originario dell’Illinois, avviato sin da ragazzo alla carriera militare, nel 1939 era entrato in aviazione, specializzandosi come pilota di caccia e di bombardieri. Era al fronte solo dal mese precedente. Toccava a lui decidere che fare, e in fretta, perché il B 24 non poteva esaurire il carburante volando in attesa di ordini.
Richardson considerò che un sommergibile tedesco era un pericolo sia per le navi inglesi in arrivo, sia per la stessa base, qualora vi si fosse avvicinato (21). Impartì, quindi, il fatidico ordine: sink sub, affondare il sommergibile. Harden tornò indietro, si abbassò sull’U 156 e lasciò cadere cinque bombe. Cinque esplosioni sollevarono colonne d’acqua. Una scialuppa, con il suo carico umano, fu centrata in pieno. L’U 156
traballò, ma non venne colpito.
Quando il rombo del quadrimotore si fu spento in lontananza, Hartenstein verificò che l’U 156 aveva subìto danni al periscopio e agli accumulatori. A quel punto fu il suo turno di prendere decisioni drastiche. Il sommergibile doveva al più presto essere riparato, per cui venne evacuato dai naufraghi, che raggiunsero a nuoto le scialuppe superstiti. Non c’era posto per tutti, alcuni non vennero issati a bordo e morirono annegati. Hartenstein si congedò parlando al megafono: indicò la rotta da tenere per raggiungere l’Africa e augurò buona fortuna, consapevole che ben difficilmente le scialuppe sarebbero riuscite a toccare la terra ferma, distante milletrecento chilometri. Salutò militarmente e sparì dentro il suo sommergibile, che si immerse.
Così uscì di scena Werner Hartenstein. Dopo essere stato riparato, l’U 156 riprenderà il mare, con l’ordine di spostarsi nelle acque americane. Verrà attaccato da un idrovolante Catalina al largo delle Barbados l’8 marzo 1943, colpito da bombe di profondità e affondato. Non ci saranno superstiti.
Giovedì 17 settembre anche l’U 506 su cui si trovava Mario Lupi venne bombardato da un aereo. La vedetta, però, era all’erta. Il cavo a cui erano agganciate le scialuppe venne immediatamente tranciato, i naufraghi in coperta precipitosamente fatti rientrare. L’U 506 sprofondò sott’acqua, sfuggendo alle esplosioni delle bombe. In seguito recuperò le scialuppe e proseguì l’operazione. Il giorno successivo i sommergibili furono raggiunti dalle navi francesi e procedettero al trasbordo dei naufraghi.
Le navi – le vedette Annamite e Dumont D’Urville e l’incrociatore Gloire – rientrarono a Dakar in un paio di giorni. Da lì, gli italiani vennero trasferiti in Libia per ferrovia.
Ormai si stava combattendo, attorno ad El Alamein, la battaglia decisiva per il controllo dell’Africa. I superstiti, comunque, non erano nelle condizioni di riprendere le armi. Raggruppati in un battaglione, apparivano in precarie condizioni fisiche e morali, per cui furono utilizzati nelle retrovie. Quando, ormai, incombeva l’avanzata delle truppe britanniche, vittoriose, i sopravvissuti del Laconia vennero rimpatriati in aereo. Il 10 marzo 1943, Mario Lupi era a Sciacca, in Sicilia; il 29 giungeva a Milano.
I civili e i militari britannici, invece, finirono in campi di internamento o di prigionia, ove qualcuno trovò la morte, debilitato dalla precedente esperienza. Recuperarono la libertà nel 1943, dopo la resa delle forze italo-tedesche in Africa.

I sommersi e i salvati
Particolarmente drammatica è la vicenda delle due scialuppe che l’U 156 dovette abbandonare. I superstiti remarono finché ne ebbero la forza. Poi, esauriti viveri e acqua, incominciarono a morire. Qualcuno impazzì, qualcuno si uccise. L’odissea di una di esse è stata rievocata da Tony Large (22), un marinaio sudafricano, già sopravvissuto a un precedente naufragio: raccolto in mare dal Cappellini e depositato su quella scialuppa, fu uno dei cinque che, dopo quaranta giorni in mare, toccarono terra: quarantasei suoi compagni erano morti. James Mc Loughin era sull’altra scialuppa, su sui si stringevano 66 uomini e 2 donne. Arrivarono in Liberia in 16 (ma uno morì appena sbarcato), dopo ventotto giorni in mare. Un sommergibile italiano li aveva incrociati, ma, verificato che non vi erano connazionali a bordo, aveva proseguito per la sua rotta (23).
Le stime sulle vittime dell’affondamento del Laconia oscillano tra 1621 e 1782. Solo gli italiani furono almeno 1460. Molti, debilitati, morirono più tardi di malattia: fu questo, probabilmente, il caso dell’abbiatense Antonio Grassi. Tutti subirono conseguenze psicologiche. In seguito all’attacco aereo deciso dal capitano Richardson, l’ammiraglio Donitz emanò il cosiddetto ordine Laconia, stabilendo che, da quel momento, i sommergibili tedeschi non avrebbero più soccorso i naufraghi. Tale disposizione, che segnò un incrudimento della guerra per mare, fu uno degli addebiti di cui dovette rispondere durante il Processo di Norimberga ai criminali nazisti24. La sua posizione, comunque, venne alleggerita da una dichiarazione dell’ammiraglio statunitense Chester Nimitz: direttive analoghe erano state impartite anche ai sommergibili americani nel Pacifico. Doenitz se la cavò con una condanna a 11 anni e sei mesi di carcere, che scontò a Spandau, presso Monaco di Baviera. Morì ad Amburgo, quasi novantenne, nel 1980.
Robert Richardson, invece, fu giudicato solo dagli storici. Terminò la guerra come tenente colonnello e si congedò dall’esercito nel 1967, con il grado di generale. Divenne quindi un autorevole studioso di problemi strategici, consulente di istituzioni e autore di numerosi testi. Attualmente (2010) risulta ancora vivente.
Circa altri protagonisti della vicenda, anche il tenente Harden sopravvisse alla guerra: nel 2002, intervistato dalla televisione britannica, espresse il suo rammarico per aver dovuto bombardare l’U 156.
Harro Schacht morì con tutto l’equipaggio dell’ U 507 nel gennaio del 1943 durante un attacco aereo. Stessa sorte toccò a Wurdemann e all’ U 506 nel luglio successivo: solo sei marinai si salvarono. Ravedin lasciò il comando del Cappellini, trasformato in sommergibile da trasporto, e giunse indenne al termine del conflitto. Rimase in Marina e comandò la celebre nave-scuola Vespucci.
La tragedia del Laconia è stata rievocata in numerose pubblicazioni e, recentemente (2009), anche in un film. Il 22 aprile 1969, lo storico francese Leonce Peillard compì una crociera, che lo portò proprio presso il punto dell’affondamento. Promosse così una commemorazione del disastro e, su richiesta dei superstiti italiani, depose una corona d’alloro sulle acque. La cerimonia fu vissuta intensamente dall’equipaggio e dai passeggeri della nave. “Ma per noi” ha scritto Mario Lupi, “che abbiamo vissuto quei momenti, rivedendo quell’acqua in quel tragico punto, forse è stato meglio non esserci.” (25)
Alberto Magnani

NOTE
1. Archivio Mario Lupi (d’ora in avanti: AML), copia della documentazione conservata
presso l’Archivio Cunard versato all’Università di Liverpool. Cfr. I dati in Laconia,
in www.GreatShips.net.
2. M. Eliseo, W.H. Miller, Transatlantici tra le due guerre. L’epoca d’oro delle navi di
linea, Milano 2008.
3. AML, Archivio Cunard cit.
4. Mark Hirst, Captain Sharp Account, in www.lancastria.org.uk.
5. J. McLoughlin with D. Gibb, One common enemy. The Laconia incident: a survivors
memoir, Adelaide-London 2006, p. 63.
6. AML, cronologia con mappa del viaggio e annotazioni.
7. McLoughlin, One common enemy cit., p. 66.
8. Ad Hartenstein è dedicato il sito www.wernerhartenstein.tripod.
com.
9. McLoughlin, One common enemy cit., pp. 82-83.
10. Idem, p. 67.
11. Testimonianza in www.lancastria.org.uk
12. AML, Testimonianza di Bruno Beltrami. La testimonianza, nata per un servizio
giornalistico, contiene alcune imprecisioni. Altre testimonianze sono state riportate da
Antonino Trizzino, Sopra di noi l’oceano, Milano 1968.
13. McLoughlin, One common enemy cit., p. 67.
14. AML, Testimonianza di Bruno Beltrami.
15. Dati tecnici sui sommergibili tedeschi e sui loro comandanti si trovano in
www.uboataces.com.
16. R. Nissigh, Guerra negli abissi, Milano 1971, p. 411.
17. McLoughlin, One common enemy cit., p. 74.
18. Si trattava del Lima, appartenente a una compagnia privata che compiva trasporti
marittimi in Inghilterra, con tutti i rischi che ciò comportava.
19. McLoughlin, One common enemy cit., p. 82.
20. Murfett, Naval warfare cit., pp. 226-27.
21. M. Maurer, L. Paszek, Origin of the Laconia order, “Air University Review”,
march-april 1964.
22. Nel libro In deep and troubled waters, pubblicato nel 2001.
23. Probabilmente era il Cappellini.
24. Donitz parlò della vicenda del Laconia durante l’udienza del 9 maggio 1946. Il
verbale, contenuto nel volume XIII degli atti del processo, è consultabile in www.wernerhartenstein.
tripod.com, The Nuremberg Testimony of Great Admiral Karl Doenitz
about U Boat warfare and the Laconia incident. Alle pp. 281-284 sono riportati i testi
dei messaggi intercorsi tra Doenitz e i suoi sommergibili.

Spero che il tutto vi sia piaciuto.
Giusepin

P.S. Se qualcuno desiderasse avere tutto quanto precede in PDF l'amico Comincini sarà lieto di spedirglielo in forma gratuita.
 
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