Una tragedia tra le tante, Diario di Mario Lupi

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giusepin
view post Posted on 28/1/2016, 09:02




Bella integrazione, Radagast.
 
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view post Posted on 28/1/2016, 09:28


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Grazie Giusepin per questo lavoro condiviso per tutti noi.
 
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giusepin
view post Posted on 28/1/2016, 17:59




Contentissimo che vi sia piaciuto. Grazie.
Giusepin
 
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giusepin
view post Posted on 28/1/2016, 19:21




Con il Diario di Mario Lupi abbiamo visto la fine del Laconia ma crediamo utile e opportuno far conoscere anche gli antefatti di quello che fu un prestigioso transatlantico. Ed ecco qui.

LA TRAGEDIA DEL “LACONIA”
Il Laconia: un transatlantico richiamato alle armi
L’affondamento del Laconia provocò, solo tra gli italiani a bordo, un numero di vittime pressoché uguale a quello del Titanic. Tuttavia non ha lasciato, in Italia, un’impronta profonda sulla memoria storica collettiva, né ha suscitato un particolare interesse storiografico. Eppure, oltre che per la drammaticità dei fatti, l’evento è degno di essere ricordato e analizzato, in quanto implicò gravi conseguenze sul successivo svolgimento della guerra per mare.
Quando venne silurato, sabato 12 settembre 1942, il Laconia era una nave adibita al trasporto truppe. Ma non era sempre stato così. Il Laconia era nato come transatlantico di linea, fatto costruire, nel 1921, dalla compagnia di navigazione britannica Cunard (1). Venne inaugurato il 25 maggio 1922, salpando da Southampton e raggiungendo New York.
La scelta del nome corrispondeva al gusto britannico per le intitolazioni geografiche dal sapore antico o esotico: Morocco, Lusitania, Scythia, Franconia… In realtà, non si trattava di un nome molto ben augurante: sino a pochi anni prima, era esistito un altro Laconia, affondato durante la Prima Guerra Mondiale.
Il transatlantico era lungo oltre 180 metri e raggiungeva una larghezza massima di 22. Dal ponte si levavano due alberi e, al centro, troneggiava una grande ciminiera. Navigava alla velocità massima di 16 nodi, vale a dire poco meno di trenta chilometri orari. Poteva trasportare sino a 2200 passeggeri, anche se, di fatto, mediamente ne imbarcava duemila.
Il Laconia divenne famoso, nel 1923, per essere stato la prima nave della Cunard a compiere il giro del mondo, impresa che lo portò a toccare ventidue porti in quattro mesi di navigazione. Trascorse il resto degli anni Venti navigando tra Liverpool, New York e Boston; qualche volta, intraprese l’attraversata salpando da Amburgo. Nel decennio successivo fu utilizzato anche come nave da crociera: le cartoline d’epoca ce lo mostrano con lo scafo dipinto di nero, le strutture di coperta bianche, la ciminiera rossa.
Furono, quelli, gli anni di maggior fortuna del Laconia, nell’ “epoca d’oro delle navi di linea” (2). I ponti della prima classe si popolavano di turisti altolocati e signore eleganti, in un’atmosfera che ha ispirato spesso il cinema e la letteratura. Uno dei miti elaborati dall’immaginario del Novecento è stato proprio la nave da crociera, che naviga beatamente verso la catastrofe. Catastrofe che, infatti, incombeva. Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, i lussuosi transatlantici vennero richiamati alle armi. Vennero ridipinti di grigio e armati di cannoni.
Trasformati in navi da trasporto, divennero, a tutti gli effetti, obiettivi militari, sebbene l’equipaggio fosse composto da marinai della Marina Mercantile; e in molti colarono a picco, centrati dai siluri tedeschi. A volte, anche da quelli italiani. Da Liverpool, il Laconia venne trasferito a Portsmouth, ove si procedette alla sua militarizzazione. Fu armato di cannoni e munito di cariche esplosive di profondità, con le quali, almeno, tentare di difendersi dai sommergibili. Dal 1939 al 1941 trasportò materiale bellico. Tra il giugno e l’agosto del 1941 subì nuove modifiche e fu adibito al trasporto truppe (3.) Nell’estate del 1942, mentre si combatteva la fase decisiva della guerra per il controllo del Nordafrica, ricevette l’incarico di imbarcare soldati italiani fatti prigionieri dai britannici in quel settore.
Il comandante della nave era, allora, Rudolph Sharp, un autentico lupo di mare che dimostrava più dei suoi cinquantasette anni (4.) Originario di una famiglia di marinai proveniente dalle Shetland, isole spazzate dalle onde del Mare del Nord, aveva trascorso la vita sui ponti dei più prestigiosi transatlantici del tempo. All’inizio della guerra, a Sharp venne affidato il Lancastria, che, prima ancora di concludere l’ultima crociera, era stato armato e riconvertito in nave trasporto truppe. Sharp traghettò in Norvegia soldati del contingente inviato dalla Gran Bretagna a fronteggiare l’invasione tedesca. Neanche un mese dopo, crollate le difese norvegesi, doveva ritornare nella terra dei fiordi per raccogliere i superstiti. Il 14 giugno 1940, Rudolph Sharp era a Liverpool. Qui ricevette l’ordine di salpare nuovamente per portare in salvo le truppe inglesi reduci dalla Francia, anch’essa sconfitta e invasa dall’esercito tedesco: le disposizioni ricevute lo autorizzavano a imbarcare quanti più uomini possibile, ben al di là del limite di passeggeri previsto. Così, nel pomeriggio del 17 giugno, il Lancastria era stracarico di persone, quando fu attaccato da cacciabombardieri tedeschi Junkers 88.
Nel più assoluto silenzio, un’infinità di occhi fissò le bombe che cadevano dal cielo. La nave colò a picco. Il numero esatto delle vittime non è stato accertato, ma si calcola che non fu inferiore ai quattromila morti. Il capitano Sharp venne ripescato, vivo, in mezzo a grandi chiazze di combustibile. Nessun comandante della Marina britannica aveva mai avuto tante vittime fra i propri passeggeri. E, per lui, non era ancora finita.

Nelle fauci dell’Orso Polare
Non appena Sharp fu in grado di riprendere servizio, ricevette di nuovo il comando di una nave. Quella nave era, appunto, il Laconia. Nel luglio del 1942, Sharp imbarcò i prigionieri italiani, ai quali si aggiungevano militari britannici di diversa provenienza. Per usare le parole del marinaio James McLoughlin, sul transatlantico si accalcava “una mescolanza di umanità, che solo una guerra può mettere assieme.” (5 ) Sull’esatta composizione di quella mescolanza, i dati sono discordanti, anche perché passeggeri salirono e scesero dalla nave nel corso dei numerosi scali.
Dopo l’ultimo scalo, che avvenne a Città del Capo, sul Laconia viaggiavano oltre 2700 persone, molte di più, dunque, rispetto al numero previsto di passeggeri. Di esse, i prigionieri italiani erano 1840: in maggioranza soldati catturati nel corso degli ultimi combattimenti. Provenivano dalle divisioni Ariete, Brescia, Pavia, Trento, Trieste e Sabratha. Mario Lupi fornisce un’importante precisazione: alla partenza, i prigionieri erano 2640, ma 800 di essi erano stati sbarcati a Durban (6 ) e avviati verso campi di prigionia in Sudafrica. I 1840 rimasti a bordo eran destinati alla Gran Bretagna. A loro si aggiungevano oltre 800 passeggeri della nave, in primo luogo i membri dell’equipaggio; quindi una compagnia di soldati polacchi incaricati di sorvegliare i prigionieri (dopo l’invasione tedesca della Polonia, profughi ed esuli polacchi erano stati aggregati all’esercito inglese); infine vi erano militari e civili britannici, che, per varie ragioni, venivano richiamati in Gran Bretagna dall’Africa. Qualcuno portava con sé la famiglia: le donne e i bambini a bordo erano tra ottanta e novanta.
La nave salpò il 29 luglio 1942. Pigiati nelle stive, gli italiani soffrivano il caldo anche di notte. Due volte al giorno erano condotti in coperta, dove le guardie polacche spruzzavano loro addosso violenti getti d’acqua. Il rancio consisteva in pochi cucchiai di brodaglia e semolino, e poco più. La rotta prevedeva di attraversare il Canale di Suez e circumnavigare l’Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza e risalendo l’Atlantico sino a raggiungere la Gran Bretagna. Il transatlantico, dunque, discese lungo il Mar Rosso, toccò Aden il 1° agosto e vi sostò un giorno; poi Mombasa, in Kenya, il 10 agosto, con una sosta di qualche giorno, e Durban, in Sudafrica, il 22 agosto. Un nuovo scalo a Città del Capo, il 28 agosto, quindi il Laconia affrontò le acque dell’Atlantico, infestate dai sommergibili.
L’Atlantico era uno dei principali teatri della guerra sottomarina. In quei mesi, l’epicentro era nel Nord, da dove transitavano i convogli provenienti dagli Stati Uniti, intervenuti nel conflitto nel dicembre precedente. Tuttavia, sommergibili tedeschi pattugliavano anche l’area centrale e meridionale dell’Oceano; anzi, proprio in quel mese di agosto, mentre il Laconia incrociava al largo dell’Africa Orientale, cinque di
essi erano stati sguinzagliati verso Sud, nel quadro di un’operazione denominata Orso Polare. L’ordine proveniva dall’ammiraglio Karl Doenitz, il comandante in capo della flotta sottomarina tedesca. Doenitz aveva iniziato la sua esperienza di sommergibilista già nella Prima Guerra Mondiale.
Dopo l’avvento del Nazismo in Germania, era stato uno degli artefici del riarmo della Marina tedesca. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si era dimostrato un geniale stratega nell’uso dei sommergibili contro le navi nemiche, tanto da guadagnarsi la totale stima di Hitler: questi, infatti, nel 1943 lo promuoverà a comandare tutta la Marina. Nel 1945, infine, Doenitz succederà allo stesso Hitler, suicida, come Führer della Germania, ma rimarrà in carica il tempo necessario a firmare la resa.
Nel 1942, peraltro, i sommergibili di Doenitz cominciavano a dover fare i conti con la contromossa escogitata dalle forze britanniche e statunitensi. Erano infatti stati messi a punto aerei attrezzati per dar loro la caccia, muniti di radar e bombe di profondità: quando la vedetta di un sommergibile ne avvistava uno, le speranze di fare in tempo a completare le operazioni di immersione e mettersi così al sicuro risultavano piuttosto ridotte. Da qui, una serie crescente di perdite e le conseguenti preoccupazioni per la sicurezza dei natanti.
Dopo quarantacinque giorni di navigazione, il Laconia si stava dunque inoltrando in acque sempre più insidiose. Sharp ordinò di procedere navigando a zig-zag, nell’esile speranza che tale manovra elusiva potesse creare difficoltà a un possibile aggressore. Il 12 settembre 1942 la nave si trovava in un punto intermedio fra l’isola di Ascensione e le coste occidentali dell’Africa. Quel giorno, un marinaio di vedetta sul sommergibile tedesco U 156 avvistò all’orizzonte il pennacchio di fumo che si levava dalla ciminiera del transatlantico. James McLoughlin ricorda che quel fumo gli era subito sembrato eccessivo, tale da poter essere fin troppo facilmente notato a distanza. Ne aveva parlato ai marinai, ma questi avevano replicato che non ci si poteva proprio fare niente, la nave era antiquata e fumava così (7).
L’U 156 era uno dei sommergibili indirizzati verso Sud nel quadro dell’Operazione Orso Polare. Uscito l’anno precedente dai cantieri navali di Brema, apparteneva al tipo IX C, perfezionato alla fine degli anni Trenta: era lungo oltre settantacinque metri e imbarcava una cinquantina di marinai. Il comandante era il capitano Werner Hartenstein, un brillante ufficiale di trentaquattro anni. Era nativo di Plauen, in Sassonia, di una città, cioè, situata ai piedi delle montagne nel cuore dell’Europa, ma era affascinato dal mare. Entrato giovanissimo nella Marina Militare tedesca, aveva iniziato la carriera nel 1928, prima su un incrociatore leggero, quindi nella flotta sottomarina. Aveva preso parte alle operazioni navali condotte dalla Germania in appoggio ai franchisti durante la guerra civile in Spagna, guadagnandosi la prima decorazione; altre ne aveva collezionate nel corso della Guerra Mondiale (8).
L’esperto Hartenstein puntò il suo binocolo e riconobbe la sagoma del cannone di prua, il che, oltre alla rotta a zig-zag, confermava che si trattava di un trasporto militare britannico (9): un obiettivo ideale da aggiungere alla lunga lista di navi – si avvicinava a quota venti – già affondate dal suo sommergibile. Ordinò, pertanto, di seguire il fumo della ciminiera mantenendosi a distanza di sicurezza. A sera, col favore delle tenebre, l’U 156 si sarebbe avvicinato alla preda, sino a raggiungere la posizione utile per sganciare i siluri. Le ore del 12 settembre trascorsero così: il Laconia navigava, il predatore lo seguiva senza perderlo mai di vista.
Non appena fu buio, l’U 156 si mise in posizione. Intorno alle 20.00, Hartenstein ordinò il fuoco. Un siluro guizzò verso la nave. Impiegò pochi minuti a centrare il bersaglio. “Sentimmo improvvisamente un tremendo colpo proveniente da sotto la nave con un rimbombo pauroso che ci fece traballare.”, ricorda Mario Lupi. “Una tremenda esplosione”, gli fa eco James McLoughlin, che stava scendendo i corridoi in cerca delle cucine, “il boato era da stordire. Mi sentii come se fossi stato colpito sulla testa da una poderosa botta. Mi fece girare su me stesso, mi sollevò mi scaraventò contro un pomello d’acciaio, lasciandomi senza fiato sul pavimento.” (10) Al cadetto di Marina Albert Goode, all’epoca di appena sedici anni, è rimasto impresso l’odore di cordite che si diffuse ovunque11. Hartenstein ordinò di sganciare un nuovo siluro. L’obiettivo venne colpito per la seconda volta: il viaggio del Laconia era terminato.
“Allora scoppiò il pandemonio”, ricorda McLoughlin.

continua ...
 
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foch
view post Posted on 28/1/2016, 21:26




Vecchio transatlantico, il Laconia poteva navigare alla velocità massima di 30 nodi-ma forse ai suoi bei dì e non quel giorno di settembre nell'Atlantico meridionale, effettuando per di più frequenti accostate (per tenere una rotta a zig-zag).
L'U-Boot del Cap. Hartenstein che l'aveva scoperto e lo inseguiva, che velocità poteva toccare in emersione ?

Foch
 
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view post Posted on 28/1/2016, 22:52
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credo fosse della versione IX c pertanto circa 18 nodi in emersione e 7 in immersione...
per prendere un piroscafo dovevi giocare d'anticipo indovinando l'accostata.
 
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giusepin
view post Posted on 29/1/2016, 10:36




proseguo con il Laconia.

La nave dei folli
Un prigioniero italiano, Bruno Beltrami, ricorda che “lo scoppio provocò la morte istantanea di centinaia di soldati, le stive superiori crollarono per l’esplosione e parte degli uomini fu inghiottita in quella bara che non dava nessuna possibilità di scampo per la furia dell’acqua che entrava con un rumore assordante e forza violentissima. La nave scricchiolò e in quel caos di rottami, di urla selvagge, di pianti, di disperazione, perse la vita anche un mio caro compagno, che tenevo per mano. Era il sergente maggiore Leandro D’Onofrio, era romano, un caro ragazzo. Mi scivolò, e scomparve nella stiva, che rumoreggiava come una cascata.” (12)
Di sopra, nei corridoi, avvenivano manifestazioni di terrore e di isteria. “La gente urlava e si lamentava”, ricorda McLoughlin, “tutti spingevano e si travolgevano e si calpestavano e correvano nel buio” (13). La nave incominciò a inclinarsi su un fianco, facendo rotolare sui pavimenti uomini e cose. La prua veniva sommersa dalle onde.
Chi, fra tutti, mantenne una gelida calma, fu il comandante Sharp: diede l’ordine di abbandonare il Laconia e fece lanciare l’SOS, cioè la richiesta di soccorso in caso di attacco da parte di un sommergibile.
Infine si trasferì sul ponte a dirigere le operazioni, fumando impassibile. Le esplosioni dei siluri avevano reso inutilizzabili alcune scialuppe, il cui numero era comunque insufficiente ad accogliere tutti i naufraghi. Sulle prime scialuppe, Sharp fece salire le donne, i bambini e i feriti. Sulle altre, il personale civile e militare e l’equipaggio. In preda al panico, i passeggeri si gettavano verso le scialuppe, rivelandosi poi incapaci di manovrarle. Per i prigionieri non c’era spazio. Qualcuno, presumibilmente lo stesso comandante, considerò con logica fredda che, se fossero saliti in coperta, gli italiani si sarebbero precipitati in massa sulle scialuppe, portando il caos al massimo; e, con logica altrettanto fredda, e spietata, concluse che per salvare i britannici era necessario far chiudere le stive.
Le guardie polacche ricevettero l’ordine di tenere lontani i prigionieri dai cancelli. L’enorme folla, cercando di fuggire da quella trappola mortale, si accalcò verso le vie d’uscita, premendo sinché le porte furono scardinate. Altri, tra i quali Mario Lupi, sgusciarono fuori passando per le prese d’aria. Le guardie cercavano di contenerli a colpi di baionetta, qualcuno sparò. Le scialuppe, intanto, venivano calate una dopo l’altra. In coperta, Bruno Beltrami assistette “a scene di pazzia, di dolore e di panico forse ancora più spaventose: le lotte a coltello per ottenere un posto sulle scialuppe, schioppettate addosso ai prigionieri che cercavano scampo nelle lance, caccia all’uomo che nella buia notte poteva essere un prigioniero, scialuppe che precipitavano in mare perché mal manovrate e che si disintegravano a contatto con l’acqua; e tutti i componenti a lottare con il mare per la salvezza, altre che, cariche di uomini, rimanevano agganciate al paranco scaricando in mare tutto il loro carico umano addosso ad altri naufraghi che a stento stavano a galla.” (14)
Quando l’ultima scialuppa fu in mare, Rudolph Sharp lasciò il ponte. Non aveva intenzione di sopravvivere per la seconda volta a una catastrofe nautica. Si diresse nella propria cabina e attese lì di essere inghiottito dall’oceano.
L’agonia del Laconia ebbe termine intorno alle ore 22. La nave fu spinta verso l’alto dall’esplosione delle caldaie, quindi si inabissò, trascinando con sè circa 1400 prigionieri italiani, alcuni già morti, altri ancora vivi. Centinaia di superstiti galleggiavano sballottati dalle onde, aggrappati alle zattere o alle cinture di salvataggio. In mezzo all’oceano, le prospettive che si aprivano per loro erano di essere assaliti dagli squali o di essere sommersi dalle onde. Neppure i naufraghi sulle scialuppe, in assenza di soccorsi, avevano realistiche speranze di arrivare sino alla terraferma.
L’U 156, intanto, si era mosso. Dopo aver atteso che l’obiettivo fosse colato a picco, ad Hartenstein rimaneva ancora un compito da svolgere, prima di poter considerare conclusa la missione: intercettare le scialuppe e catturare il comandante della nave e il capo macchinista, in modo da sottrarre alla Marina avversaria personale specializzato. Sarebbero stati prelevati anche ufficiali di alto grado, qualora ve ne fossero stati.
In tale circostanza, poteva accadere che i marinai del sommergibile affondatore prestassero assistenza ai naufraghi della nave da loro stessi affondata: medicavano i feriti, consegnavano viveri e acqua, davano indicazioni per raggiungere le coste più vicine. Tra i sommergibilisti italiani, ebbe grande risonanza il caso di Salvatore Todaro, comandante del Cappellini, che, dopo aver silurato un convoglio belga nel mare in tempesta, prese a rimorchio la zattera dei naufraghi, fermandosi a recuperarla quando il cavo si spezzava; infine caricò a bordo i belgi e li sbarcò al sicuro. Era il tentativo, non sempre semplice, di trovare un punto d’equilibrio tra la dimensione disumanizzante della guerra e la conservazione del senso di umanità, tra lo spirito del guerriero e quello del marinaio, per il quale si deve sempre soccorrere un naufrago.
Avanzando in cerca delle scialuppe, i marinai tedeschi si resero conto che le acque brulicavano di uomini che lottavano disperatamente per restare a galla. I primi che furono raccolti e issati sul ponte del sommergibile spiegarono di essere prigionieri italiani. L’Italia era alleata della Germania, pertanto Hartenstein ordinò subito di soccorrerli.

Ufficiale e gentiluomo
I marinai tedeschi incominciarono a ripescare i naufraghi che annaspavano attorno al sommergibile. Gli uomini in buone condizioni venivano lasciati sul ponte, i feriti, invece, trasportati all’interno per essere medicati. Hartenstein, intanto, si mise in contatto con la centrale operativa della flotta sottomarina, che si trovava a Parigi, nella Francia occupata.
Segnalò: “Affondato inglese Laconia purtroppo con 1500 prigionieri italiani. Sino ad ora 90 salvati. Chiedo ordini.”
Immediatamente venne informato l’ammiraglio Doenitz. Questi chiese maggiori dettagli sull’accaduto e si consultò con i suoi più stretti collaboratori. Tutti erano preoccupati circa i rischi cui l’U 156 si esponeva, impegnandosi in un’operazione di salvataggio; d’altra parte la presenza di centinaia di soldati appartenenti a un esercito alleato la rendeva necessaria. Nella zona la Marina tedesca disponeva soltanto di sommergibili.
In base alle carte nautiche, sulle quali venivano costantemente aggiornati gli spostamenti di tutti i mezzi, i più vicini risultavano essere l’U 506 e l’U 507, entrambi della classe IX C, in azione nel Golfo di Guinea. (15) A una velocità massima che superava di poco i trenta chilometri orari in emersione, avrebbero impiegato almeno due giorni per unirsi alle operazioni di riscatto.
Doenitz rese noti i fatti alla centrale operativa dei sommergibili italiani, denominata Betasom, con base a Bordeaux. In quel momento, era in corso una missione nell’Atlantico centro-meridionale: il sommergibile Barbarigo era diretto verso il Sudafrica, coadiuvato dal Cappellini, che avrebbe dovuto rifornirlo di carburante. La missione venne annullata. Il Cappellini fu dirottato verso l’U 156 e il Barbarigo proseguì solo, riducendo il proprio raggio d’azione. (16)
Per completare l’operazione, fu interpellato il governo collaborazionista francese, insediato a Vichy sotto controllo tedesco. Il governo di Vichy disponeva di alcune navi nel porto di Dakar, in Senegal, che salparono per imbarcare i naufraghi recuperati dai sommergibili.
Nel frattempo, Hartenstein era sempre all’opera. Non si stava limitando a soccorrere gli italiani, ma prestò assistenza anche ai britannici. Le donne e i bambini furono prelevati dalle scialuppe e portati al coperto, dentro l’U 156. Il ponte del sommergibile si riempiva di naufraghi, che si accalcavano in tutto lo spazio disponibile, mentre altri ingombravano i locali e i corridoi sottocoperta. Prima dell’alba, Hartenstein prese una decisione ardita: fece trasmettere in chiaro, cioè non in codice, un SOS in inglese: “se qualsiasi nave soccorrerà i naufraghi del Laconia affondato, io non la attaccherò, purché non sia a mia volta attaccato da navi o aerei. Ho raccolto 193 uomini.” Diede le coordinate della sua posizione e si firmò come “sommergibile tedesco.”
Estesa l’operazione su più vasta scala. Doenitz ordinò ad Hartenstein di rimanere sul posto in attesa degli altri sommergibili. Trasmise inoltre le norme di sicurezza da rispettare, messaggio, questo, ripetuto più volte anche agli altri comandanti: “i sommergibili che partecipano non debbono prendere a bordo che un numero di naufraghi tale da poter rimanere in grado di immergersi e manovrare.”
Le luci dell’alba di domenica 13 settembre illuminarono i segni del disastro. James Mc Loughin, che non aveva trovato posto sulle scialuppe e resisteva sopra una zattera con un compagno, ricorda “decine di cadaveri che galleggiavano a faccia in giù, gonfi e grotteschi rottami dappertutto, scatole e barattoli.” (17) Mc Loughin fu recuperato dall’U 156 in mattinata: il sommergibile continuava a girare in cerca di superstiti, che le onde disperdevano sempre più lontano.
Il marinaio inglese ha lasciato una descrizione di Werner Hartenstein. L’ufficiale indossava una giubba scolorita dal sole e dalla salsedine. Appariva il prototipo del comandante di un sommergibile tedesco: “Era molto magro e abbronzato, con il solco profondo di una vecchia cicatrice che scendeva da una guancia. Aveva labbra sottili, il naso stretto e prominente, lo sguardo penetrante.” Si intrattenne chiacchierando cordialmente in inglese con i due naufraghi.
L’U 156 proseguì la ricerca dei superstiti anche nelle ore successive. Le scialuppe recuperate erano state legate al sommergibile e, a turno, gli occupanti potevano salire a bordo per essere rifocillati. Trascorse così il giorno 13, la notte, poi tutto lunedì 14, e un’altra notte. Si attendeva di scorgere all’orizzonte la sagoma degli altri sommergibili, quella sagoma che, sino a qualche giorno prima, aveva costituito l’incubo di tutti i naufraghi.
L’U 156 comandato da Erich Wurdermann fu il primo ad arrivare, nella mattinata di martedì 15 settembre. Wurdermann, ventotto anni, nativo di Amburgo, navigava sui sommergibili da solo due dei suoi sette anni di servizio. Da quando era al comando dell’U 506, cioè da un anno, aveva dato prova delle sue capacità: nella primavera precedente si era spinto sin nel Golfo del Messico, affondando una nave statunitense dietro l’altra. Quando gli era giunto l’ordine di raggiungere l’U 156, aveva appena silurato un mercantile svedese (18).
L’U 506 affiancò l’U 156. I due comandanti si parlarono al megafono. Vennero quindi tesi alcuni cavi e utilizzati per farvi scorrere sopra un canotto, con il quale, a poco a poco, oltre un centinaio di naufraghi italiani furono trasferiti da un sommergibile all’altro. Mario Lupi era tra loro. Conclusa l’operazione, l’U 506 si allontanò. Nel pomeriggio dello stesso giorno giunse anche l’U 507 comandato da Harro Schacht. Concittadino di Wurdemann, Schacht, trentaseienne, aveva come lui seminato il panico tra le navi americane nel Golfo del Messico. Nell’agosto precedente aveva ripetuto l’impresa a danno della flotta brasiliana, il che spinse il Brasile, all’epoca neutrale, a dichiarare guerra alla Germania.
Infine si aggiunse il Cappellini: era questo lo stesso sommergibile già comandato da Salvatore Todaro, passato successivamente agli ordini di Marco Ravedin. La mattina di mercoledì 16 settembre, i tre sommergibili perlustravano ancora le acque in cerca di altri naufraghi. James Mc Laughin, salito sul ponte dell’U 156, vi trovò il comandante Hartenstein che consumava il rancio. L’ufficiale tedesco conversò con il giovane marinaio inglese e un suo compagno, condividendo il rancio con loro. “Era più di un ufficiale. Era un signore”, scrive Mc Laughin (19). Poco dopo la situazione precipitava.

continua ...
 
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giusepin
view post Posted on 29/1/2016, 17:30




ultima parte

Sparare sulla Croce Rossa
Sembra che, per problemi tecnici, l’invocazione di soccorso lanciata dal Laconia silurato non sia stata captata da nessuno. Il messaggio in chiaro di Hartenstein, invece, giunse a Freetown, ma le autorità britannichelo considerarono uno stratagemma per attirare navi in un’imboscata. Si era in guerra, e cose simili erano successe.
Il giorno 13, comunque, l’Ammiragliato inglese non aveva più dubbisul triste destino del transatlantico. Le navi più vicine disponibili per un’operazione di salvataggio erano due mercantili: l’Empire Haven, alla fonda nel porto di Freetown, e il Corinthian, ancorato a Tokoradi, nel Ghana. Entrambe ricevettero l’ordine di salpare alla ricerca dei superstiti.
Per assicurare loro protezione, i britannici chiesero alle autorità degli Stati Uniti di contribuire alla copertura aerea. Venne così coinvolta nella vicenda la base statunitense di Wideawake, sull’isola di Ascensione. La base era operativa dall’agosto precedente. Il suo campo d'atterraggio doveva servire da scalo per gli apparecchi che, decollati dagli Stati Uniti, erano diretti verso i teatri di guerra d’Africa e del Medio Oriente. Vi era inoltre ospitata stabilmente 1a Squadriglia Mista, composta da caccia P 39 e bombardieri medi B 25, in funzione antisommergibile.
Nessuno di loro, a quanto risulta, individuò i mezzi impegnati nelle operazioni di riscatto. Almeno, sino al giorno 16 settembre, quando si produsse un avvistamento, in circostanze casuali (20).
Il tenente pilota James D. Harden, con due uomini d’equipaggio, stava trasferendo in Africa un quadrimotore B 24 Liberator. Dopo aver fatto scalo all’isola di Ascensione, era ripartito in direzione di Freetown. Improvvisamente, scorse un sommergibile che rimorchiava tre imbarcazioni. Era l’U 156 di Hartenstein. Harden lo sorvolò a bassa quota. Segnali luminosi gli comunicarono in alfabeto Morse che si trattava di un sommergibile tedesco impegnato nel salvataggio di naufraghi. Un altro messaggio, a nome di un ufficiale della RAF imbarcato, confermava quello precedente e avvertiva della presenza di civili. Sul ponte, Hartenstein aveva fatto distendere una bandiera della Croce Rossa.
Harden virò e si mise in contatto con la base di Ascensione. In quel momento, l’ufficiale più anziano di grado in servizio era il capitano Robert Richardson, il comandante della squadriglia mista. Richardson, ventiquattrenne originario dell’Illinois, avviato sin da ragazzo alla carriera militare, nel 1939 era entrato in aviazione, specializzandosi come pilota di caccia e di bombardieri. Era al fronte solo dal mese precedente. Toccava a lui decidere che fare, e in fretta, perché il B 24 non poteva esaurire il carburante volando in attesa di ordini.
Richardson considerò che un sommergibile tedesco era un pericolo sia per le navi inglesi in arrivo, sia per la stessa base, qualora vi si fosse avvicinato (21). Impartì, quindi, il fatidico ordine: sink sub, affondare il sommergibile. Harden tornò indietro, si abbassò sull’U 156 e lasciò cadere cinque bombe. Cinque esplosioni sollevarono colonne d’acqua. Una scialuppa, con il suo carico umano, fu centrata in pieno. L’U 156
traballò, ma non venne colpito.
Quando il rombo del quadrimotore si fu spento in lontananza, Hartenstein verificò che l’U 156 aveva subìto danni al periscopio e agli accumulatori. A quel punto fu il suo turno di prendere decisioni drastiche. Il sommergibile doveva al più presto essere riparato, per cui venne evacuato dai naufraghi, che raggiunsero a nuoto le scialuppe superstiti. Non c’era posto per tutti, alcuni non vennero issati a bordo e morirono annegati. Hartenstein si congedò parlando al megafono: indicò la rotta da tenere per raggiungere l’Africa e augurò buona fortuna, consapevole che ben difficilmente le scialuppe sarebbero riuscite a toccare la terra ferma, distante milletrecento chilometri. Salutò militarmente e sparì dentro il suo sommergibile, che si immerse.
Così uscì di scena Werner Hartenstein. Dopo essere stato riparato, l’U 156 riprenderà il mare, con l’ordine di spostarsi nelle acque americane. Verrà attaccato da un idrovolante Catalina al largo delle Barbados l’8 marzo 1943, colpito da bombe di profondità e affondato. Non ci saranno superstiti.
Giovedì 17 settembre anche l’U 506 su cui si trovava Mario Lupi venne bombardato da un aereo. La vedetta, però, era all’erta. Il cavo a cui erano agganciate le scialuppe venne immediatamente tranciato, i naufraghi in coperta precipitosamente fatti rientrare. L’U 506 sprofondò sott’acqua, sfuggendo alle esplosioni delle bombe. In seguito recuperò le scialuppe e proseguì l’operazione. Il giorno successivo i sommergibili furono raggiunti dalle navi francesi e procedettero al trasbordo dei naufraghi.
Le navi – le vedette Annamite e Dumont D’Urville e l’incrociatore Gloire – rientrarono a Dakar in un paio di giorni. Da lì, gli italiani vennero trasferiti in Libia per ferrovia.
Ormai si stava combattendo, attorno ad El Alamein, la battaglia decisiva per il controllo dell’Africa. I superstiti, comunque, non erano nelle condizioni di riprendere le armi. Raggruppati in un battaglione, apparivano in precarie condizioni fisiche e morali, per cui furono utilizzati nelle retrovie. Quando, ormai, incombeva l’avanzata delle truppe britanniche, vittoriose, i sopravvissuti del Laconia vennero rimpatriati in aereo. Il 10 marzo 1943, Mario Lupi era a Sciacca, in Sicilia; il 29 giungeva a Milano.
I civili e i militari britannici, invece, finirono in campi di internamento o di prigionia, ove qualcuno trovò la morte, debilitato dalla precedente esperienza. Recuperarono la libertà nel 1943, dopo la resa delle forze italo-tedesche in Africa.

I sommersi e i salvati
Particolarmente drammatica è la vicenda delle due scialuppe che l’U 156 dovette abbandonare. I superstiti remarono finché ne ebbero la forza. Poi, esauriti viveri e acqua, incominciarono a morire. Qualcuno impazzì, qualcuno si uccise. L’odissea di una di esse è stata rievocata da Tony Large (22), un marinaio sudafricano, già sopravvissuto a un precedente naufragio: raccolto in mare dal Cappellini e depositato su quella scialuppa, fu uno dei cinque che, dopo quaranta giorni in mare, toccarono terra: quarantasei suoi compagni erano morti. James Mc Loughin era sull’altra scialuppa, su sui si stringevano 66 uomini e 2 donne. Arrivarono in Liberia in 16 (ma uno morì appena sbarcato), dopo ventotto giorni in mare. Un sommergibile italiano li aveva incrociati, ma, verificato che non vi erano connazionali a bordo, aveva proseguito per la sua rotta (23).
Le stime sulle vittime dell’affondamento del Laconia oscillano tra 1621 e 1782. Solo gli italiani furono almeno 1460. Molti, debilitati, morirono più tardi di malattia: fu questo, probabilmente, il caso dell’abbiatense Antonio Grassi. Tutti subirono conseguenze psicologiche. In seguito all’attacco aereo deciso dal capitano Richardson, l’ammiraglio Donitz emanò il cosiddetto ordine Laconia, stabilendo che, da quel momento, i sommergibili tedeschi non avrebbero più soccorso i naufraghi. Tale disposizione, che segnò un incrudimento della guerra per mare, fu uno degli addebiti di cui dovette rispondere durante il Processo di Norimberga ai criminali nazisti24. La sua posizione, comunque, venne alleggerita da una dichiarazione dell’ammiraglio statunitense Chester Nimitz: direttive analoghe erano state impartite anche ai sommergibili americani nel Pacifico. Doenitz se la cavò con una condanna a 11 anni e sei mesi di carcere, che scontò a Spandau, presso Monaco di Baviera. Morì ad Amburgo, quasi novantenne, nel 1980.
Robert Richardson, invece, fu giudicato solo dagli storici. Terminò la guerra come tenente colonnello e si congedò dall’esercito nel 1967, con il grado di generale. Divenne quindi un autorevole studioso di problemi strategici, consulente di istituzioni e autore di numerosi testi. Attualmente (2010) risulta ancora vivente.
Circa altri protagonisti della vicenda, anche il tenente Harden sopravvisse alla guerra: nel 2002, intervistato dalla televisione britannica, espresse il suo rammarico per aver dovuto bombardare l’U 156.
Harro Schacht morì con tutto l’equipaggio dell’ U 507 nel gennaio del 1943 durante un attacco aereo. Stessa sorte toccò a Wurdemann e all’ U 506 nel luglio successivo: solo sei marinai si salvarono. Ravedin lasciò il comando del Cappellini, trasformato in sommergibile da trasporto, e giunse indenne al termine del conflitto. Rimase in Marina e comandò la celebre nave-scuola Vespucci.
La tragedia del Laconia è stata rievocata in numerose pubblicazioni e, recentemente (2009), anche in un film. Il 22 aprile 1969, lo storico francese Leonce Peillard compì una crociera, che lo portò proprio presso il punto dell’affondamento. Promosse così una commemorazione del disastro e, su richiesta dei superstiti italiani, depose una corona d’alloro sulle acque. La cerimonia fu vissuta intensamente dall’equipaggio e dai passeggeri della nave. “Ma per noi” ha scritto Mario Lupi, “che abbiamo vissuto quei momenti, rivedendo quell’acqua in quel tragico punto, forse è stato meglio non esserci.” (25)
Alberto Magnani

NOTE
1. Archivio Mario Lupi (d’ora in avanti: AML), copia della documentazione conservata
presso l’Archivio Cunard versato all’Università di Liverpool. Cfr. I dati in Laconia,
in www.GreatShips.net.
2. M. Eliseo, W.H. Miller, Transatlantici tra le due guerre. L’epoca d’oro delle navi di
linea, Milano 2008.
3. AML, Archivio Cunard cit.
4. Mark Hirst, Captain Sharp Account, in www.lancastria.org.uk.
5. J. McLoughlin with D. Gibb, One common enemy. The Laconia incident: a survivors
memoir, Adelaide-London 2006, p. 63.
6. AML, cronologia con mappa del viaggio e annotazioni.
7. McLoughlin, One common enemy cit., p. 66.
8. Ad Hartenstein è dedicato il sito www.wernerhartenstein.tripod.
com.
9. McLoughlin, One common enemy cit., pp. 82-83.
10. Idem, p. 67.
11. Testimonianza in www.lancastria.org.uk
12. AML, Testimonianza di Bruno Beltrami. La testimonianza, nata per un servizio
giornalistico, contiene alcune imprecisioni. Altre testimonianze sono state riportate da
Antonino Trizzino, Sopra di noi l’oceano, Milano 1968.
13. McLoughlin, One common enemy cit., p. 67.
14. AML, Testimonianza di Bruno Beltrami.
15. Dati tecnici sui sommergibili tedeschi e sui loro comandanti si trovano in
www.uboataces.com.
16. R. Nissigh, Guerra negli abissi, Milano 1971, p. 411.
17. McLoughlin, One common enemy cit., p. 74.
18. Si trattava del Lima, appartenente a una compagnia privata che compiva trasporti
marittimi in Inghilterra, con tutti i rischi che ciò comportava.
19. McLoughlin, One common enemy cit., p. 82.
20. Murfett, Naval warfare cit., pp. 226-27.
21. M. Maurer, L. Paszek, Origin of the Laconia order, “Air University Review”,
march-april 1964.
22. Nel libro In deep and troubled waters, pubblicato nel 2001.
23. Probabilmente era il Cappellini.
24. Donitz parlò della vicenda del Laconia durante l’udienza del 9 maggio 1946. Il
verbale, contenuto nel volume XIII degli atti del processo, è consultabile in www.wernerhartenstein.
tripod.com, The Nuremberg Testimony of Great Admiral Karl Doenitz
about U Boat warfare and the Laconia incident. Alle pp. 281-284 sono riportati i testi
dei messaggi intercorsi tra Doenitz e i suoi sommergibili.

Spero che il tutto vi sia piaciuto.
Giusepin

P.S. Se qualcuno desiderasse avere tutto quanto precede in PDF l'amico Comincini sarà lieto di spedirglielo in forma gratuita.
 
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foch
view post Posted on 29/1/2016, 20:38




CITAZIONE (Radagast_ @ 28/1/2016, 22:52) 
credo fosse della versione IX c pertanto circa 18 nodi in emersione e 7 in immersione...
per prendere un piroscafo dovevi giocare d'anticipo indovinando l'accostata.

Radagast, grazie della risposta. Da inesperto, mi chiedevo se un sommergibile di allora avesse problemi ad inseguire un mercantile (non parliamo di una nave da guerra); e vedo che era effettivamente così.

Nella penultima parte del resoconto di Giusepin ("Ufficiale e Gentiluomo), leggo :
-"...i più vicini [U-Boote ] risultarono essere l'U 506 e l'U 507, entrambi della classe IX C, in azione nel Golfo di Guinea. Ad una velocità massima che superava di poco i trenta chilometri in emersione, avrebbero impiegato almeno due giorni per unirsi alle operazioni di riscatto".

18 nodi marini e 30 chilometri orari : è giusta la concordanza ?
Se sì, anche il vecchio Laconia, con i suoi 30 nodi filava via non poco.

Foch

Edited by foch - 29/1/2016, 20:57
 
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view post Posted on 2/2/2016, 13:15


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Sono stato impegnato ultimamente e sono riuscito solo ora a leggermi questo post tutto d'un fiato.

Ringrazio di cuore Giusepin per aver condiviso questa vicenda che, per mia ignoranza non conoscevo, e anche Radagast per le integrazioni molto utili a completare questa pagina di storia terribile e crudele rischiarata da qualche lampo di eroismo ed umanità per provare a riscattare questa nostra razza umana...

Riguardo all'ultima domanda di Foch mi sembra di aver capito che il Laconia avesse una velocità di 16 nodi, NON di 30 nodi...

Ho invece una curiosità/dubbio riguardo l'azione del B-24 americano decollato da Ascension e che per puro caso si è imbattuto nell'azione di soccorso del'U-156.

CITAZIONE
Impartì, quindi, il fatidico ordine: sink sub, affondare il sommergibile. Harden tornò indietro, si abbassò sull’U 156 e lasciò cadere cinque bombe. Cinque esplosioni sollevarono colonne d’acqua. Una scialuppa, con il suo carico umano, fu centrata in pieno. L’U 156
traballò, ma non venne colpito.

Non sono esperto ma non è poco probabile che il B-24 non sia riuscito con 5 bombe a centrare il sommergibile che procedeva in navigazione molto lentamente per i soccorsi che stava portando. Mi domando se le bombe non siano state mandate fuori bersaglio in modo deliberato. O in tempo di guerra era impossibile solo pensare una simile azione.

Giusepin mi metto in fila per il PDF, ove possibile :D GRAZIE

Giorgio
 
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view post Posted on 2/2/2016, 16:00
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l'aereo americano (non credo fosse un B-24) è stato inviato sul luogo dell'affondamento ben sapendo che avrebbe potuto trovare sommergibili tedeschi in zona. il fatto che abbia fatto alcuni giri sopra all'U-Boot testimonia che in realtà gli ordini non fossero così chiari o perlomeno non ci si aspettasse la bandiera della croce rossa.
Le bombe hanno colpito il sommergibile e l'hanno danneggiato abbastanza seriamente. Considera che centrare in volo un battello stretto e lungo non è cosa facile. inoltre per danneggiare e affondare un u-boot non è necessario centrarlo con le bombe o con le cariche di profondità. è lo spostamento dell'acqua di un'esplosione vicina allo scafo che lo piega e lo distrugge, non solo un colpo in pieno.

Consiglio a chi mastica l'inglese o meglio ancora il tedesco, di comprare (alcuni numeri sono esauriti ma si trovano su ebay) la splendida rivista "u-boot im focus" della Luftfahrtverlag Start" del competentissimo Axel Urbanke. La rivista esce con una cadenza di circa un numero all'anno ma vale davvero la pensa di attendere. Le foto pubblicate tutte rigorosamente indedite, testi molto approfonditi e indicazioni tecniche oltre che sugli equipaggi e sulle operazioni. Una pecca il costo, ma va vissuta come una monografica specifica e specializzata più che come una semplice rivista.
Se comprate il numero 11 trovate l'articolo sull' U-Boot 438 e sul suo impiego bellico in particolare il suo difficile trasferimento da Kiel al porto di Brest dal 1 agosto al 3 settembre 1942. Durante il tragitto l'U-438 affianca in mare, sotto il pericolo di attacchi aerei, l'U-256 danneggiato da un Wellington e impossibilitato ad immergersi. Diverse foto dell'articolo, soprattutto quelle che riprendono la "bocca di squalo" e che hanno consentito di riprodurre il disegno del profilo del sommergibile su ben tre pagine, provengono dalla mia collezione. :)

 
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view post Posted on 2/2/2016, 19:04


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Radagast,
grazie del tuo esauriente chiarimento al mio dubbio sul bombardamento.

Spero che vorrai pubblicare qualche altra tua foto in futuro.

Giorgio
 
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giusepin
view post Posted on 3/2/2016, 10:45




Grazie Giorgio-MI per i tuoi apprezzamenti.
Ho visto che l'amico dott. Mario Comincini ha soddisfatto la tua richiesta del PDF e ti ha fatto anche un regalino! Contento anche di questo.
Ciao.
G.
 
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view post Posted on 3/2/2016, 11:12


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Yes, Sir. Già fatto rilegare .... :B):

G.
 
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giusepin
view post Posted on 3/2/2016, 16:21




Celere amico mio. Sei sicuro di non essere passato tra i Fanti piumati?
R.
 
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44 replies since 24/1/2016, 19:26   2687 views
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