| No, Calvi fu l'unico della famiglia reale (in senso allargato, s'intende) a non lasciare Roma dopo l'8 settembre. Vi rimase come comandante in capo delle forze a presidio della capitale (che già il Governo Badoglio dopo il 25 luglio aveva provveduto a dichiarare Città Aperta -una 'furbata' mal studiata anche dal punto di vista del diritto internazionale, nel tentativo - fallito- di evitare i bombardamenti Alleati). Non si rese, pertanto, colpevole di abbandono di posto e non si eclissò nelle ore e nei giorni cruciali come alti generali (Carboni, per esempio). Ciò però non basta a giustificarne l'esaltazione fattane da certa panegiristica monarchica. Da molti gli viene rimproverata una condotta arrendevole e incerta nei confronti dei tedeschi che riavutisi dalla sorpresa di non vedersi attaccati nè dagli italiani nè dagli alleati, rientrarono indisturbati o quasi a Roma. Il suo proclama ai romani sancì nella sostanza (ma in parte anche nella lettera) il passaggio dei poteri ai tedeschi. A toglierlo dalla posizione ambigua in cui venne così a trovarsi (rappresentante del governo del Re, ma di fatto collaboratore dei tedeschi) intervenne la ricostituzione di un governo fascista con a capo Mussolini al nord, cui egli non poteva aderire e non aderì. I tedeschi, che lo rispettavano e gli dovevano in fondo un pò di riconoscenza, lo trasferirono in Germania (un modo anche di sottrarlo a eventuali ritorsioni e vendette dei fascisti). La rottura avvenne quando Kappler pretese da Calvi (in quanto nominalmente comandante di Roma Citta Aperta e unica autorità militare rimasta al proprio posto di comando) una lista di alti ufficiali italiani da deportare in Germania come ostaggi. Roma pullulava di 'greche' e 'feluche' nascoste nelle dimore della nobiltà romana, in edifici vaticani, in chiese e conventi. Calvi chiese 24 ore di tempo e alla scadenza la risposta a Kappler fu il tipico beau-geste dell'ufficiale di cavalleria di carriera : l'unico nome che aveva trovato da mettere sulla lista era il suo. I tedeschi, in effetti, lo arrrestarono e trasferirono in Germania assieme ad un tenente suo ufficiale di collegamento. Si trattò di una prigionia 'all'acqua di rose', se si considera che restò agli arresti in un hotel di Monaco di Baviera con gli onori dovuti ad un eroe di guerra e gli venne risparmiato l'internamento in un campo, sorte degli altri ufficiali italiani. Quando Calvi se ne stupì (e forse lamentò) con Kesselring, questi gli inviò un fonogramma di risposta con la spiegazione : 'Ognuno ha la prigionia che si merita'. Come già detto, Calvi si era guadagnato il rispetto e la stima dei colleghi tedeschi (giudici non facili e preparati in fatto di onore militare) non solo per i suoi modi signorili di vero gentiluono piemontese, ma come comandannte al loro fianco in Africa Settentrionale. Con Rommel Calvi aveva meritato una croce di ferro tedesca e, in un'occasione, comandato in battaglia un battaglione tedesco rimasto senza comandante e senza ordini. Da Monaco i tedeschi gli permisero di rientrare in Italia, a Casale Monferrato, agli arresti domiciliari presso una marchesa sua zia. Con i tedeschi in ritirata, Calvi corse il rischio di finire in mano a quelli della RSI che lo reclamavano, ma dalla Svizzera dove si era rifugiata la moglie riuscì a organizzare la sua fuga. Attraversato il Piemonte in bicicletta, a Domodossola trovò due contrabbandieri che gli fecero passare il confine svizzero. Foch
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