« … di tutte le età e di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù … il Siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca di un romanzo … il miserabile in cerca di un pane, l’infelice in cerca della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse, ma la cui lega purificata dalla santità dell’insegna, animata dalla volontà unica di quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata ».
Questo ciò che scrisse il garibaldino Guerzoni di quel popolo variegato che salpò da Quarto in quella fatidica alba del 5 maggio 1860 che andava a sfidare un regno.
Ma vediamo le succinte biografie di tre di loro per poi arrivare al perché di queste note.
CUCCHI FRANCESCIO LUIGI. Nato a Bergamo il 17.12.1834 da nobile e facoltosa famiglia. Studente al Collegio dei Barnabiti di Lodi, poi in quello di Martinengo e poi al Ginnasio-Liceo di Bergamo. Era un ragazzino quando visse l’effimero sogno dei moti del ’48, ma da quel momento abbracciò la nobile causa della liberazione dallo straniero. Si iscrisse poi all’Università di Padova nella facoltà dio matematica. In un suo viaggio a Londra conobbe Mazzini e si iscrisse alla Giovane Italia. Saputo che Vittorio Emanuele era deciso a impugnare la sciabola per vendicare la sconfitta di Novara di dieci anni prima, rientrò in Italia e corse in Piemonte ad arruolarsi come volontario nei Cacciatori delle Alpi e fu assegnato nel 3° reggimento al comando di Nino Bixio. Fece tutta la Campagna prendendo parte a tutti i combattimenti del suo reggimento. L’anno dopo è con i Mille e si distinse a Calatafimi e fu promosso ufficiale. La ferita che gli toccò a Palermo lo costrinse in ospedale per tre mesi. Fu promosso Maggiore, ma non volle entrare del Regio Esercito.
Era presente ai fatti di Sarnico del ’61 e fu arrestato e imprigionato come tutti gli altri . Fu anche Ambasciatore presso Bismarck e incaricato di missioni particolari. Ebbe ruolo importante nella Campagna del ’66 come ufficiale di Stato Maggiore nel Corpo Volontari Italiani di Garibaldi intessendo anche trattative tra il Re e lo stesso Garibaldi. Nel 1867 fu inviato in segreto da Garibaldi a Roma, ma non riuscì a promuovere la sollevazione della città.
Divenne deputato e poi senatore del Regno. Si ammalò e la malattia lo portò alla morte che avvenne a Roma il 1.10.1913. La Capitale gli dedicò un’erma sul Gianicolo e un monumento lo ricorda nella sua città.
una foto del garibaldino - l'erma sul Gianicolo a Roma e il monumento a Bergamo
NULLO FRANCESCO GIUSEPPE. Nato a Bergamo il 1.3.1826 da facoltosa famiglia di commercianti e possidenti. Dopo le scuole elementari entra nel Ginnasio Vescovile di Celana che superò brillantemente. Proseguì con gli studi commerciali a Milano presso l’I. R. Scuola Tecnica in via Cappuccio. Studiò anche la lingua francese e tedesca. Combattente nelle Cinque Giornate di Milano nel marzo 1848, artigliere volontario alla difesa di Treviso e dello Stelvio con il grado di Sottotenente, poi ammesso nella Regia Armata Sarda. Nel ’49 si dimette dal servizio per accorrere in aiuto della Repubblica Romana come ufficiale di cavalleria nei Lancieri di Masina dove ottiene le spalline di Luogotenente. Nel ‘59 è volontario nelle Guide dei Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 è ancora con le Guide quando sbarca a Marsala con i Mille; combatte a Calatafimi compiendo miracoli con i suoi bergamaschi ed è ferito a una gamba; combatte a Palermo ed è promosso Capitano; per aver costretto alla resa il forte di Reggio Calabria ottiene la promozione a Maggiore. Combatte l’1 e 2 ottobre sul Volturno ed è promosso Tenente Colonnello di Cavalleria con Decreto Dittatoriale del 10.10.1860; termina la campagna del Sud con una spedizione nel Sannio contro una banda di fuorilegge che taglieggiava la popolazione.
Il 30 ottobre incontra Garibaldi a Caserta che gli affida una lettera per re Vittorio che si trovava a Sessa con la quale il Generale deponeva la dittatura delle Provincie liberate. Il successivo 9 novembre lo seguiva poi nella quiete di Caprera. Nel giugno ’61 è decorato con la Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia per gli avvenimenti dell’anno prima e due mesi dopo è confermato nel grado. Nel ’62 si dimette dal servizio ed è presente ai fatti di Sarnico per i quali è arrestato e incarcerato ad Alessandria è poi rimesso in libertà nel mese di giugno; ad agosto è con il suo Generale sull’Aspromonte dove è di nuovo arrestato e incarcerato nel forte di Fenestrelle. Una volta libero restituisce sdegnato le sue onorificenze così come fece lo stesso Garibaldi e altri ancora. Nel 1863 rispose all’appello del popolo polacco per la sua indipendenza dalla Russia e morì in combattimento a Krzykawka (Polonia) il 5.5.1863, terzo anniversario della spedizione dei Mille. È sepolto nel cimitero di Olkusz e in Polonia è considerato eroe nazionale e tutti gli anni è commemorato nella ricorrenza della morte. La Capitale polacca lo ricorda con un imponente monumento e un altro gli fu dedicato sul campo di battaglia dove trovò la morte. Il suo revolver ad avancarica, un F. Kinapen Breveté matricola n° 356 ricevuto in dono dai Patrioti Svizzeri, è tuttora conservato nel Museo Militare di Varsavia. Anche la sua città natale non si scordò di lui e lo immortalò con un ben monumento.
Nel '59 nelle Guide - nel 1862 e la erma sul Gianicolo a Roma
Monumento a Bergamo e a Varsavia
PICCININI DANIELE. Nato a Pradalunga il 3.6.1830 da facoltosa famiglia da secoli legata all’industria delle pietre cote. Crebbe con una educazione all’onestà, alla generosità, alla probità e all’amore. Frequentò tre anni di “grammatica” nella casa di educazione Grismondi di Redona; sostenne i tre esami come privatista all’Imperiale Regio Ginnasio (l’attuale Liceo Sarpi), proseguì gli studi prima nell’I. R. Ginnasio di Bergamo e poi in quello di Pavia, città della famiglia materna. La sua educazione patriottica lo fecero più volte riprendere dai superiori finché non venne espulso da tutti gli Istituti dell’Imperial Regio Governo Austriaco per essersi rifiutato di cantare l’inno ufficiale
«Dio salvi l’Imperatore». Tornò quindi a Pradalunga, ma, spirito irrequieto e un po’ snob (vestiva sempre di fustagno, foulard rosso-azzurro al collo, bandana in testa e sopra a questa un cappello all’ernani) anziché dedicarsi all’attività paterna preferì impiegarsi come garzone-aiutante presso la salumeria Bontempelli del suo paese. L’estrosità del suo carattere lo portò a farsi stampare dei biglietti da visita dove il suo nome era sormontato da una corona di cotechini, specialità di Pradalunga, e seguito quasi come titolo nobiliare la qualifica di «Salsicciaio novus».
Nel ’48 è a Bergamo e partecipa alla presa dei quartieri di S. Maria e S. Agostino e poi in qualche schiera di volenterosi, se per Milano o il Trentino non è dato sapere. Nel ’59 è nei Cacciatori delle Alpi e il 27 maggio a San Fermo fu ferito a una mano. Fu congedato con il grado di Sergente. Nel ’60 è con i Mille nell’8° compagnia dei bergamaschi e fu messo al comando della IIa squadra. A Calatafini, visto il Generale esposto continuamente ai tiri borbonici gli si avvina e lo copre con il suo gran torace prima, poi gli getta sulle spalle un suo ampio mantello di incerata per coprire il rosso della camicia, mantello che al termine della battaglia conterà ben 14 fori di palle. All’ordine di Nullo:
«Ché i Bergamasch inturen a mé!» (Qui i bergamaschi, tutti intorno a me!), cui seguì:
«Atencc, quanda o feura mé, feura teucc, distentiv zo a entail e po in acc de gran corsa!» (Attenti, quando esco io, fuori tutti, spiegatevi a ventaglio e poi avanti di gran corsa!) ordini prontamente eseguiti che risolveranno una brutta situazione e sloggiò i borbonici dalla vetta di Pianto dei Romani, o Pianto Romano, che dir si voglia.
Per il suo comportamento il nostro si guadagnò sul campo la promozione a ufficiale. Non pochi reduci sono concordi nel testimoniare del coraggio, della fermezza e dell’ardire del nostro possente montanaro che il 27 maggio venne ferito a Porta Termini da palla alla gamba destra (ferito nella stessa data dell’anno prima) che non gli impedì di continuare il combattimento, ma che fu poi costretto al ricovero ospedaliero per la cura del caso. E quando l’ospedale fu bombardato dai borbonici trovò accoglienza in case private che pagò di tasca propria con gli ultimi soldi che gli rimanevano. L'11 giugno fu nominato Capitano ed assegnato al V Battaglione, II Reggimento, II Brigata, XV Divisione. Il mese successivo fu comandante della IV Compagnia, VII Battaglione, II Reggimento, II Brigata. Il 20 luglio fu Presidente di una commissione straordinaria per reprimere reati ed intemperanze nei comuni delle zone appena espugnate.
Deluso dagli aspetti politici e degli eventi, si congedò il 15 dicembre 1860. Mantenne però sempre i contatti con gli ambienti patriottici, incontrando anche Garibaldi per pianificare missioni, tra cui la liberazione del Trentino e di Roma. Con R.D. del12 giugno 1861 fu insignito di una medaglia d’argento al Valor Militare. Nel ’62 lo troviamo sull’Aspromonte a fianco del Generale e dopo quegli avvenimenti spezzò la sua sciabola, gettandola poi ai piedi dell’ufficiale dei Bersaglieri, giurando che non ne avrebbe mai più impugnata un’altra. E così fu. Nel ’66, infatti, si arruolò come semplice milite nel 1° reggimento dei Volontari Italiani segnalandosi nella battaglia di Lodrone e il 10 luglio 1866 ricevette una seconda Medaglia d'argento.
Al termine dei combattimenti si ritirò nella tranquillità della sua valle, dedicandosi alle sue passioni: le escursioni sulle sue montagne che conosceva come le sue tasche e la caccia. Non disdegnava una partita a carte con gli amici e una bevuta in compagnia, ma quando una volta alzò un po’ troppo il gomito rischiando poi di cadere in un dirupo, giurò che non avrebbe più bevuto alcol, giuramento che mantenne. Dato il suo carattere schivo e taciturno, classico di quel popolo, non partecipò mai alle commemorazioni ufficiali di Quarto e in quelle successive, nemmeno a quella indetta a Palermo. Anche a chi gli chiedeva di raccontare aneddoti dei suoi trascorsi militari rispondeva con un sorrisetto.
La sue passioni lo portarono, nel 1889, negli Abruzzi che girava armato di fucile e pistola che non poteva non attirare l’attenzione dei carabinieri che vollero sapere chi fosse quell’individuo dalla lunga barba. Fermato, fu sottoposto a un controllo accurato dei documenti e poi rilasciato con le scuse del nostro per il tempo che aveva fatto perdere loro. Voleva visitare il Gran Sasso e ritornò nell’agosto del 1889 stabilendosi per circa due mesi circa a Tagliacozzo, prese accordi con una giovane guida perché lo accompagnasse nell’escursione dandogli appuntamento alla stazione. La guida arrivò e quando vide alla cintura del garibaldino la grossa pistola gli chiese di mostragliela e Piccinini gliela porse dalla parte del calcio. Non si sa come, ma fatalità volle che il colpo partì ferendo gravemente il Bergamasco al petto dal lato sinistro all’altezza dell’ultima costa. Il garibaldino si compresse la ferita e a piedi ritornò in albergo chiedendo di voler incontrare subito il Pretore al quale rilasciare una dichiarazione scritta di proprio pugno che scagionasse di ogni responsabilità il suo feritore. Conscio della gravità della ferita spediva un biglietto all’amico Pasquinelli:
« Chiudo fabbrica, perché ho il ventre in disordine. Ho preso il biglietto per Celano, ma cambio strada. Più tardi avrai mie notizie ». Il 9 agosto 1889 alle 5,45 pomeridiane spirò lasciando scritto di voler essere sepolto a Tagliacozzo, ma il 3 aprile dell’anno dopo la sua salma fu traslata a Pradalunga e collocata nella tomba di famiglia con la semplice epigrafe: DANIELE PICCININI UNO DEI MILLE. Un suo ritratto su tela è stato donato al comune di Trescore che lo espone nella sala del consiglio comunale.
Infine, la grande considerazione che Garibaldi nutriva per Nullo e il Piccini fece sì che li elevò a protagonisti del suo romanzo
I Mille, edito poi da Capelli di Bologna.
Fu in un discorso che il Generale appellò Bergamo Città dei Mille, sottolineando che Cucchi, Nullo e Piccinini erano Bergamo. Nel 1960, Centenario della Spedizione, il Comune volle eternare quel richiamo in una medaglia che li ricordasse. Eccola ripresa appoggiata sulla scatola contenitrice.
Forse mi sono dilungato troppo per una insegna commemorativa. Abbiate pazienza.