Settembre L’Italia è spezzataConversazione tra ELENA AGA ROSSI, FILIPPO FOCARDI e ALESSANDRA TARQUINI a cura di ANTONIO CARIOTI
Corriere della Sera - La Lettura
20 ago 2023
Ottant’anni fa il nostro Paese firmò l’armistizio con gli Alleati e fu in gran parte occupato dai tedeschi. Sarebbe stato possibile almeno limitare i danni? Ne discutono gli storici Elena Aga Rossi, Filippo Focardi e Alessandra Tarquini
Ottant’anni fa, l’8 settembre 1943, l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati ebbe come conseguenze il collasso dello Stato e la spaccatura in due dell’Italia, in parte occupata dai tedeschi e in parte liberata dagli angloamericani. Per riflettere su quel trauma ci siamo rivolti a tre storici: Elena Aga Rossi, autrice del libro sull’8 settembre Una nazione allo sbando (il Mulino, 1993); Filippo Focardi, che insegna all’Università di Padova; Alessandra Tarquini, docente alla Sapienza di Roma.
Sarebbe stato possibile all’Italia gestire diversamente l’armistizio con gli anglo-americani?
ELENA AGA ROSSI — Certamente sì. La condotta del governo guidato da Pietro Badoglio fu disastrosa. Non fu dato agli Alleati il contributo militare promesso dal generale Giuseppe Castellano, che aveva firmato l’armistizio il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia. Si rifiutò l’opportunità di avere il sostegno di una divisione americana aviotrasportata. Si cercò, senza riuscirci, di ingannare i tedeschi, sostenendo di voler rimanere al loro fianco. Fino all’ultimo le forze armate credettero di dover combattere contro gli Alleati, tanto che l’8 settembre aerei italiani decollarono per contrastare gli anglo-americani e la flotta venne fermata all’ultimo minuto. Non si fecero rientrare le truppe di stanza nei Balcani, che appresero dell’armistizio dalla radio e si trovarono in una situazione di grande incertezza.
Invece i tedeschi reagirono prontamente.
ELENA AGA ROSSI — Fin da luglio si aspettavano la resa del nostro Paese e avevano preparato il piano Achse per bloccare le vie di comunicazione e neutralizzare le truppe italiane. Dopo circa mezz’ora dall’annuncio dell’armistizio le forze tedesche si mossero secondo ordini già noti, mentre il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, a colloquio con i militari del Terzo Reich, continuava a negare quanto era avvenuto.
Che cosa avrebbe dovuto fare il governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio?
ELENA AGA ROSSI — Invece di insistere con gli Alleati per modificare le clausole della resa incondizionata, avrebbe dovuto predisporsi ad agire di concerto con loro. I campi d’aviazione, sotto il controllo italiano, avrebbero dovuto accogliere la divisione aviotrasportata promessa dagli americani, con l’apporto delle sei divisioni italiane presenti intorno a Roma che avrebbero dovuto essere preparate a combattere, ma Roatta e il generale Giacomo Carboni, cui era stata affidata la difesa della capitale, rifiutarono di intraprendere qualsiasi azione da soli contro la Wehrmacht.
FILIPPO FOCARDI — Il comportamento del governo Badoglio fu penoso e nefasto, dettato dal terrore di cadere nelle mani dei tedeschi. Gli americani erano pronti a intervenire, come concordato a Cassibile. Ma quando il generale Maxwell Taylor andò a Roma per assicurarsi che tutto fosse pronto, venne ricevuto nel cuore della notte da Badoglio in vestaglia e constatò che non era stato fatto nulla. Teniamo conto che, se la capitale fosse stata difesa, probabilmente i tedeschi si sarebbero ritirati a nord. Il loro piano iniziale prevedeva una linea difensiva da Pisa a Rimini: scelsero altrimenti quando constatarono la passività delle forze italiane. Ne conseguì anche la caduta della credibilità di Badoglio di fronte agli Alleati: quando più tardi il suo governo si offrì di armare dieci divisioni per combattere i tedeschi, gli anglo-americani non gli diedero retta e consentirono un riarmo molto più limitato.
Per non parlare della sorte dei militari italiani. FILIPPO FOCARDI — Lasciati senza ordini, furono catturati e deportati in Germania a centinaia di migliaia.
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Stro era stato causato dalla guerra voluta dal regime.Mussolini non poteva resistere? ELENA AGA ROSSI
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20 ago 2023
Si è parlato anche di «morte della patria».
FILIPPO FOCARDI — Sì, con quella formula si intende soprattutto l’incapacità dell’Italia repubblicana di rianimare, dopo l’8 settembre, un sentimento di appartenenza nazionale. Non concordo su questo con Aga Rossi: non credo abbia prevalso una visione esclusivamente partitica. Certo, dopo il 1943 i partiti hanno un ruolo fondamentale, come in tutti i Paesi democratici, ma le forze antifasciste, dai liberali ai comunisti, compiono lo sforzo di elaborare una nuova idea di patria. Non a caso i partigiani si definiscono patrioti. Non solo viene rifiutata la visione del fascismo, ma viene superata quella monarchica, ereditata dall’Ottocento. La concezione della Resistenza come secondo Risorgimento indica una continuità, ma anche la scelta di andare oltre, di ricostruire la nazione su fondamenta diverse.
ALESSANDRA TARQUINI — Certamente l’8 settembre segna una crisi dello Stato, molto evidente anche sul piano simbolico per la fuga del re. La morte della patria però si verifica prima, quando l’idea di nazione viene fascistizzata, assorbita nel progetto totalitario di Mussolini che investe la società e lo Stato in tutte le loro articolazioni. Quando affonda il regime, l’idea di patria come valore prepolitico è già morta da tempo. Il problema è che la politicizzazione del sentimento nazionale prosegue anche dopo. Focardi ha ragione quando dice che i partiti antifascisti coltivano una loro idea di patria. Solo che la patria dei comunisti, quella dei democristiani, quella dei liberali sono realtà diversissime.
Ci fu tuttavia una convergenza dei partiti antifascisti nella lotta partigiana.
ALESSANDRA TARQUINI — Però la Resistenza, pur importantissima, fu un fenomeno minoritario. Anche il riferimento al nuovo Risorgimento lascia a desiderare, perché le forze che avevano animato il moto per l’indipendenza nell’Ottocento non corrispondono certo ai grandi partiti di massa che dominano l’Italia repubblicana. Soprattutto non vedo un senso di condivisione tra questi partiti. Comunisti e socialisti sono protesi a superare il sistema in cui si trovano a vivere. E gli stessi cattolici, per la loro estraneità al Risorgimento e le loro precedenti compromissioni con il fascismo, esprimono un’idea di patria che non fa minimamente i conti con il passato. È con Ciampi che viene compiuto uno sforzo di recupero del sentimento nazionale anche a sinistra, mentre prima il richiamo all’amor di patria era considerato di destra. Tuttavia è una svolta che arriva molto tempo dopo il periodo di cui ci stiamo occupando.
FILIPPO FOCARDI — Però Ciampi fa riferimento alla Costituzione, che chiama la sua «Bibbia civile». E la Costituzione era stata scritta insieme dalle principali forze politiche. Poi negli anni della guerra fredda le contrapposizioni si fanno violente e si assiste a una politicizzazione dell’idea di patria. Ma la riscoperta promossa da Ciampi non è un’iniziativa estemporanea, un coniglio estratto dal cappello. Si basa sul richiamo alla Costituzione e su una lettura nazional-patriottica della Resistenza (non da tutti condivisa) che trova le sue origini proprio nelle vicende successive all’8 settembre. Del resto gli stessi comunisti non rifiutano il Risorgimento, anzi ne recuperano i protagonisti: non tanto Cavour, ma Mazzini, Garibaldi, Pisacane. E lo fanno già nel periodo che precede la Resistenza.
ALESSANDRA TARQUINI — Senza dubbio vanno prese sul serio le rappresentazioni che i partiti danno della propria identità. Ma il loro effettivo rapporto con il Risorgimento è assai più complicato di come vorrebbero far credere. Vale per le forze di sinistra come per i cattolici. L’operazione di Ciampi secondo me non deriva da un retroterra di consapevolezza nazionale dei partiti maturata durante la Resistenza. Semmai Ciampi si è mosso in quella direzione proprio per rimediare al venir meno del senso di appartenenza nazionale, molto evidente nel corso della prima Repubblica.
ELENA AGA ROSSI — La stessa parola patria era sparita dal vocabolario politico ed è poi riemersa per impulso di Ciampi. I partiti ritenevano che quel concetto fosse stato delegittimato una volta per tutte dall’uso che ne aveva fatto il fascismo.
ALESSANDRA TARQUINI — D’altronde oggi nel dibattito pubblico il tema della nazione è presente, ma il nazionalismo resta bandito perché ricorda il fascismo, un periodo che è stato in gran parte rimosso dalla coscienza del Paese.
A proposito di fascismo, secondo voi perché Mussolini, una volta liberato dai tedeschi, accettò di mettersi a capo della Rsi?
ELENA AGA ROSSI — Non abbiamo prove documentarie dirette, non sappiamo che cosa si dissero Hitler e Mussolini all’arrivo dell’ex dittatore italiano in Germania. È certo tuttavia che, dopo il suo arresto il 25 luglio, Mussolini sembrò accettare di essere messo da parte con una lettera a Badoglio. L’impressione è che si considerasse un uomo finito. Le foto relative alla sua liberazione mostrano inoltre che non era affatto contento per l’arrivo dei tedeschi sul Gran Sasso. Hitler invece sin dal 25 luglio ordinò di trovare Mussolini per metterlo a capo di un nuovo governo. Usò quindi di sicuro ogni mezzo per convincerlo, tanto le minacce quanto le blandizie.
— A mio parere si trovò quasi co
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9 Settembre Re e governo in fuga Ma il popolo combatte© RIPRODUZIONE RISERVATA Antonio Carioti
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20 ago 2023
Vittorio Emanuele III e Badoglio lasciano la capitale. Molti militari resistono ai tedeschi, gli Alleati sbarcano a Salerno
Alle cinque del mattino del 9 settembre una colonna di sette auto di grossa cilindrata con a bordo la famiglia reale, Badoglio e gran parte del vertice militare italiano parte dalla sede del ministero della Guerra di via Venti Settembre e imbocca la Tiburtina. Raggiungerà Pescara per imbarcarsi alla volta di Brindisi con decine di generali, funzionari, camerieri e valletti. Ma quel 9 settembre ci saranno anche militari di altra tempra.
Scontri con i tedeschi si verificano nella Francia occupata, a Nizza, sul confine del Moncenisio, in Sardegna, in Corsica, nei Balcani. Ma è nella zona di Roma che si registrano gli episodi più significativi. A Monterotondo, che per breve tempo aveva ospitato la sede dello stato maggiore dell’esercito, i paracadutisti tedeschi sferrano un attacco con lo scopo di catturare il generale Mario Roatta, il quale invece si trova al sicuro sull’autocolonna reale: la reazione dei militari italiani (compresa una compagnia d’assalto di libici e tunisini) metterà i tedeschi in gravi difficoltà: come in una piccola Stalingrado, da assedianti diventeranno assediati.
Contemporaneamente si registrano scontri a sud della capitale, in zona Magliana, dove i granatieri di Sardegna respingeranno per tutta la giornata l’attacco tedesco. Sempre alla mattina del 9 settembre si organizza una difesa della capitale: vi partecipano granatieri, lanceri, unità della divisione Ariete del generale Raffaele Cadorna, gruppi armati dei partiti antifascisti, semplici cittadini. In serata, mentre questo inedito esercito di popolo combatte strenuamente presso la basilica di San Paolo e sulla Montagnola, viene costituito il primo Comitato di liberazione nazionale. Nel frattempo sulla Cassia, tra Monterosi, Bracciano e Manziana, diverse unità dell’Ariete contrastano l’avanzata dei Panzergrenadier per tutta la giornata sino a obbligare il nemico a fare rotta prima su Tivoli e poi verso Salerno: in questa zona sin dalle prime luci dell’alba è in corso l’operazione Avalanche («Valanga»), lo sbarco angloamericano che dovrebbe creare in breve tempo una testa di ponte verso Napoli.
La lunga giornata del 9 settembre si conclude da una parte con i Savoia, il capo del governo e lo stato maggiore in attesa di imbarcarsi (passeranno la notte in alcuni castelli di Chieti), dall’altra con gli Alleati impegnati in furiosi combattimenti sulla costa salernitana. E intanto civili e militari italiani, con disperazione e coraggio, tentano di riscattare l’onore del Paese.
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stretto ad accettare. Renzo De Felice ha sostenuto che lo fece per salvare il salvabile, per evitare che l’Italia fosse sottoposta a un regime di occupazione durissimo, come quello inflitto alla Polonia. Mussolini non poteva certo farsi illusioni circa l’autonomia reale di un suo governo, ma non aveva concrete possibilità di scelta. Se avesse rifiutato, sarebbe comunque rimasto nelle mani di Hitler e forse i tedeschi avrebbero messo al suo posto Roberto Farinacci, prospettiva per lui inaccettabile. Non è da escludere che Mussolini si facesse ancora delle illusioni, magari confidando nelle «armi segrete» in preparazione nel Terzo Reich.
Come giudicare allora l’esperienza della Rsi?
ELENA AGA ROSSI — In modo negativo. La sua nascita provocò la guerra civile, spaccò l’Italia tra partigiani e fascisti, provocò una frattura che per certi versi dura tuttora, a ottant’anni di distanza. E Mussolini non riuscì a impedire le stragi di civili italiani, alle quali spesso i fascisti parteciparono accanto ai tedeschi. Per non parlare della caccia agli ebrei, alla quale la Rsi contribuì attivamente. Mussolini non poté o non volle fermare le violenze, così come non salvò suo genero Galeazzo Ciano e altri quattro gerarchi del 25 luglio dalla fucilazione per «tradimento». Ai tedeschi però la Rsi fu molto utile, perché le sue strutture ne alleggerirono il compito di governare il Paese senza minimamente limitare le prepotenze degli occupanti.
FILIPPO FOCARDI — Sono d’accordo con Aga Rossi. Nelle circostanze in cui si trovava, determinate peraltro dalle sue scelte, Mussolini non poteva agire in maniera diversa. E se il suo scopo era fare della Rsi un cuscinetto per mettere l’Italia al riparo dalle vendette naziste, non lo raggiunse affatto. Anzi, con il ritorno dei fascisti s’innescò una spirale di esasperazione delle violenze, con un’aggressività crescente verso i renitenti alla leva di Salò e la stessa popolazione civile.
ALESSANDRA TARQUINI — Il fascismo della Rsi considera le vicende dell’8 settembre come frutto di un tradimento. Lungi da me l’idea di giustificarlo, ma va ricordato che quell’esperienza trova il consenso non solo di molti giovani, ma anche di autorevoli esponenti del regime caduto il 25 luglio. C’è insomma una parte del Paese che non solo si sente tradita, ma rimane fedele a Mussolini e fa quella scelta convintamente. Di fatto l’Italia è spaccata in due: la guerra civile diventa inevitabile.
Peraltro dall’esperienza della Rsi sorge un filone politico i cui eredi sono giunti alla guida del Paese.
ELENA AGA ROSSI — Sì, come dicevo prima, la frattura del 1943-45 tra fascisti e antifascisti non si è mai davvero ricomposta. È un problema che riguarda l’identità italiana e che non siamo riusciti a risolvere.
FILIPPO FOCARDI — Non c’è ancora in Italia una coscienza diffusa di che cosa è stato veramente il fascismo. Sia per quanto riguarda il carattere violento del regime, sia per quanto concerne il progetto di trasformazione antropologica perseguito da Mussolini, che vuole fare dell’Italia un grande impero edificato su basi gerarchiche e razziste. Il nostro Paese è sempre in guerra già dal 1935 con l’invasione dell’Etiopia, poi partecipa alla guerra civile spagnola, quindi occupa l’Albania nel 1939 e poi nel 1940 entra nel conflitto mondiale.
C’è troppa indulgenza verso il Duce?
FILIPPO FOCARDI — Molti ritengono che abbia solo commesso degli errori, come le leggi razziali e l’alleanza con Hitler, senza considerare che furono sbocchi logici della sua condotta precedente. Come ha osservato Emilio Gentile, è in atto una «defascistizzazione retroattiva» del regime, che — tranne per il periodo della Rsi — ne trascura gli aspetti violenti e totalitari. Manca inoltre una riflessione seria su quelle che sono considerate le realizzazioni di Mussolini: le bonifiche, le provvidenze sociali, le opere pubbliche. In realtà tutte le dittature di massa del Novecento hanno agito sul terreno del welfare. Usando lo stesso metro dovremmo elogiare il nazismo per le autostrade e gli asili nido, e lo stalinismo per l’industrializzazione e l’alfabetizzazione in Urss.
ALESSANDRA TARQUINI — Come disse Massimo Troisi, se Mussolini faceva arrivare i treni in orario, bastava farlo capostazione, non c’era bisogno di farlo capo del governo. Aggiungo che la defascistizzazione denunciata da Gentile aveva due aspetti: alla banalizzazione promossa da destra corrispondeva la rimozione da sinistra. Se Indro Montanelli descriveva quello di Mussolini come un regime da operetta, nel campo progressista si diceva che gli italiani non erano mai stati fascisti, che la Resistenza aveva coinvolto il popolo intero, che già negli anni Trenta tra i giovani universitari si diffondeva l’antifascismo. Erano anche modi per coprire una classe dirigente e intellettuale — i magistrati, i giornalisti, i docenti universitari — passata disinvoltamente dal fascismo alla Repubblica.
A destra c’era anche chi esaltava il passato regime. ALESSANDRA TARQUINI — Eccome. Nonostante il divieto costituzionale di ricostituire il Partito fascista e la conseguente legge Scelba, ha operato in Italia fino agli anni Novanta un partito come il Msi, diretto erede nel suo stesso nome della Rsi. È istruttivo vedere le interviste di Giorgio Almirante disponibili su YouTube: nelle sue parole la rivendicazione del rapporto con il fascismo è costante. Evidentemente, malgrado le professioni di antifascismo del mondo politico democratico, la presenza nostalgica faceva comodo.
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