Il cosiddetto "Castello di Maniace" si trovava a cavallo della grande trazzera regia che per tutto il medioevo fu l'arteria più importante di penetrazione nell'interno dell'Isola, percorsa da Re e Imperatori, da eserciti e torme di invasori. Per essa infatti penetrarono nel Valdemone gli Arabi; su di essa si svolsero le prime battaglie dei conquistatori Normanni; per essa si avventurava, dopo aver fatto testamento, il viaggiatore che voleva raggiungere Palermo. Ma quali le sue origini?
Non è facile penetrare nel mistero della sua storia che non ci rivela neanche il nome originario della plaga. Il nome attuale si collega a quello straordinario avvenimento bellico del 1040, quando un generale bizantino, il protospatario Giorgio Maniace, affrontò in questa valle un esercito arabo di 50 mila soldati e lo sconfisse, facendo scorrere tanto sangue nelle acque di quel torrente che da allora si chiamò "Saracena".
Ma il villaggio esisteva già da tanti secoli, come ci rivelano i reperti archeologici venuti alla luce sotto la zappa del lavoratore della terra e come ci testimoniano le tombe "a grotticella" che ancora conservano i cocci di una civiltà preistorica, purtroppo finora non presi in considerazione dagli storici di chiara fama, ma solamente trattati in qualche articoletto da innamorati di storia locale o esplorati dalla curiosità distruttiva di incolti ricercatori casuali che, attratti dal mistero e dalla curiosità, hanno manomesso e spesso distrutto testimonianze preziose della preistoria dell'Isola.
Penetrare dunque il mistero della storia della plaga, meta di civiltà diverse, non è facile perché, come si è detto, escluse le testimonianze sopra accennate del periodo preistorico e di quello greco e romano, nulla sappiamo delle vicende che si alternarono in questa regione.
Notizia che getta un po' di luce nella storia delle origini è che sulle sponde del torrente, che lambisce l'attuale Castello, sorgeva una vecchia grangia (fattoria rurale monastica) basiliana dipendente dal Monastero di S. Filippo di Fragalà da tempo immemorabile, e che, a presidio della trazzera regia, vi era un fortilizio che faceva parte del sistema di difesa di questo percorso tra i più importanti dell'Isola, in collegamento visivo con il Castello di Bolo che dall'alto vigilava come un nume tutelare. Esso infatti era il primo caposaldo di guardia dell'importante arteria dopo la Città di Randazzo; da qui, quasi a vista, man mano che la lunga ed ampia trazzera si snodava, vigilavano sulla sua sicurezza, superbi fortilizi quali erano, oltre alla citata Torre di Maniace ed al Castello di Bolo, feudo dell'Arcivescovo di Messina, il Castello di Torremuzza, la Torre solitaria del Fiume, il Castello di Cesarò, tardo feudo dei Colonna, scorte vigilanti sulla sicurezza del viaggiatore fino a Troína che dava l'avvio ad altre valli, anch'esse fortificate, fino alla Conca d'Oro, dominata dalla superba Capitale.
Sorvolando sulle vicende degli eserciti greci del siracusano Dionigi e degli eserciti romani, la marcia di Giorgio Maniace nel 1040 è il punto di partenza delle notizie storiche certe della plaga. Giorgio Maniace, partito da Bari ancora in mano bizantina, con un esercito rafforzato da truppe normanne racimolate in Campania, sbarca a Messina, si avvia per l'impervia strada dell'impenetrabile Valdemone e affronta un esercito arabo sceso dalle balze di Troina, facendone strage proprio nel pìanoro solcato dal torrente che scorre ai piedi dello slargo su cui sorge l'attuale Castello e da cui partono le sorgenti del Simeto. Prosegue quindi, vittorioso, la sua marcia che si ferma a Siracusa dove, all'imbocco del Porto Grande, fabbrica una fortezza che, rinnovata dall'Imperatore Federico II di Svevia, porta ancora il nome di Castello Maniace, con una omonimia che spesso induce confusione negli inesperti visitatori.
La popolazione indigena fu accresciuta nel numero da elementi bizantini e la plaga e il villaggio da loro popolato, da questo momento, presero il nome del generale greco. Dopo qualche anno la pianura di Maniace fu spettatrice di un'altra grande battaglia che aprì la Sicilia alla conquista normanna. Il Gran Conte Ruggero, proveniente dal continente italiano, sbarcato nei pressi dì S. Agata di Militello, per una trazzera che scavalca i Monti Nebrodi, partendo forse dal paesetto di Frazzanò, si getta nella pianura di Maniace, affronta l'esercito arabo e, forte della nuova tecnica e della animosità feroce dei suoi Normanni, lo sbaraglia, conquista Troina, ne fa la sua prima Capitale e la sede della prima diocesi, di quella da lungo tempo aspettata felice restaurazione della Religione Cristiana che gli diede il glorioso titolo di "Adiutor Christianoruni" con cui firmò le sue pergamene di concessione e i suoi decreti.
Fu proprio in questo primo periodo normanno che il villaggio si accrebbe di nuova popolazione. La Contessa Adelaide, venuta dal suo Monferrato come sposa del Conte Ruggero, portò con sé una numerosa colonia di gente settentrionale, nota come "lombarda", che popolò intieri paesi apportandovi i propri costumi, il proprio linguaggio, la propria civiltà. Maniace, assieme a Randazzo, Piazza Armerina, Aidone, Capizzi, S. Fratello, fu una di queste colonie lombarde che ebbero un ruolo militare di grande impegno, perché, collegate insieme, furono valide difese di Guglielmo il Normanno nel 1169 e di Tancredi nel 1190. Ma l'avvenimento più strepitoso vissuto dal villaggetto sperduto di Maniace fu il passaggio di Papa Urbano II nel 1089, in visita alla Troina del Conte Ruggero. Fu un fatto storico che lasciò la sua impronta profonda nella storia generale della Sicilia. Fu infatti in questa occasione che fu stabilito il grande privilegio per i regnanti della Sicilia, durato fino al secolo passato, che va sotto il nome di "Regia Legazia", che fece di essi i Legati Pontifici della regione. Singolare istituzione che in mano a regnanti poco scrupolosi, guidati soltanto o dal loro interesse o dalla ragione di stato o spesso dall'arbitrio, tanti disguidi, nei secoli futuri, doveva creare nelle cose e nella disciplina ecclesiastica, come ci dimostra proprio il caso di Maniace. Per questa facoltà infatti, nel 1799, il timoroso Re Ferdinando IV poté regalare al laico anglicano Orazio Nelson un territorio che era esclusivamente ecclesiastico, quale era il Monastero e le dipendenze creati dalla Regina Margherita per i Figli di S. Benedetto. Il santo ed intrepido Papa si fermò nello sperduto villaggetto e per lui fu una gioia trovare una testimonianza cristiana, forse l'ultima, in quel territorio orinai pagano e arabo, nel bel quadro della Vergine ancora esistente, venerato in quella cappelletta eretta dal generale bizantino a perpetuo ricordo della sua vittoria e lasciata agli abitanti come protettrice di quelle abitazioni che da allora avrebbero preso il suo nome. Si prostrò davanti alla sacra e materna immagine della Madonna sotto il titolo di "Madre di Dio" e invocò l'aiuto suo materno per la sua impresa, per ottenere cioè dal conquistatore il ripristino della vita cristiana e della gerarchia nell'Isola e soprattutto un aiuto valido per risolvere il grande problema dello Scisma d'Oriente che, nonostante i diversi tentativi fatti lungo i secoli e il grande Concilio di Firenze (1430) e gli avvenimenti del tempo presente, dura insoluto fino ai nostri giorni. Proprio all'ultimo periodo normanno, che nulla poté per impedire la decadenza irreversibile dei monasteri greci, tanto fiorenti prima, si deve la creazione del grande fabbricato che, dalla Torre di Guardia in esso inclusa, prese il nome di "Castello di Maniace".
La Regina Margherita, moglie di Guglielmo il Malo, spinta, come affermano gli storici, dalla sua pietà verso la Madonna che in quel posto solitario maternamente regnava, volle creare un cenobio benedettino come testimonianza della sua filiale devozione (1173). E così, proprio a lato della Torre di Guardia, sfiorata dalle acque del Saracena, a ripopolare quella vasta e profonda vallata tra le pendici dell'Etna e i Monti Nebrodi, sorse il grosso fabbricato a lode di Dio e della Madonna, a profitto dei villici e dei pellegrini che in esso avrebbero trovato assistenza e difesa. Il cenobio ebbe, lungo la sua esistenza, vicende fortunose e pur nella sua vita indipendente, ebbe a subire i disagi, le vessazioni e gli umori dei vari dominatori che si succedettero nel Regno di Sicilia. Associato in un primo tempo al Monastero benedettino di Monreale, fondato da Guglielmo il Buono, figlio di Margherita, fin da principio perciò fu esente dalla giurisdizione arcivescovile di Messina (1174). 1 Primo suo abate fu Guglielmo di Blois, insignito di una autorità quasi vescovile perché ebbe la giurisdizione su tutte le chiese che sorgevano nella zona e nei paesi vicini come Villaggio del Corvo, Roccella, Tortorici ecc. ed altri fino a Taormina, che costituirono in pratica quasi una piccola diocesi.
Punto di riferimento e di sosta dei vari conquistatori, in esso presero alloggio, nel loro passaggio, Arrigo VI nel 1194, Federico Il di Svevia, suo figlio, sfrenato cacciatore col falcone, e con lui la madre Costanza, re Pietro d'Aragona di passaggio per Randazzo nel 1282 e con lui il suo esercito, imitato da tutti i suoi discendenti nel corso del sec. XIV: verso di loro il Monastero non fu certamente tenero se da qui prese l'avvio la cosiddetta "Congiura di Randazzo", il cui promotore fu proprio l'abate Guglielmo che organizzò una campagna di ribellione contro i sopravvenuti Aragonesi (1285); scoperta però, portò al patibolo i componenti e all'esilio a Malta l'improvvido abate che ebbe il tempo di darsi ad una vita di penitenza e di tanta sentita pietà da essere dal popolo onorato come Beato.
Il Monastero in questi tempi cosi travagliati ebbe una vita difficile, e non sempre fu moralmente ineccepibile la condotta dei monaci che in esso ebbero residenza. Il dovere vivere pensando spesso, per necessità, alla politica e il dovere prestarsi ad ospitare conquistatori, re di passaggio con i loro non sempre esemplari seguiti; il dovere subire prepotenze da soldatesche sbandate, da briganti, da facinorosi in quella landa deserta per vari secoli, furono causa di sbandamenti e di abitudini ed evasioni non sempre cònsoni allo spirito religioso che avrebbe dovuto dominare in un Monastero. Ciò non poteva non fare intervenire le autorità ecclesiastiche che già nel 1225 associarono il Monastero di Maniace a quello di Mormossoli. Non regolarizzatesi le cose, è del 1237 l'altro provvedimento disciplinare pontificio che aggregò il Monastero alla diocesi di Messina. Ma non per questo si normalizzò la vita disciplinare del Monastero che si trovò coinvolto in quell'imbroglio della "Congiura di Randazzo” con a capo il suo abate, finita - come abbiamo già detto - in un bagno di sangue nel 1285. Tutto ciò non poteva non lasciare le sue conseguenze nella disciplina religiosa dei monaci che per qualche tempo - come dice lo storico - vissero "senza freno e con scandalo dei fedeli". Questa fu la ragione per cui nel 1342 presero le redini del Monastero i monaci cassinesi di S. Nicolò l'Arena di Catania, non senza contrasti e opposizioni.
Non valse a nulla nemmeno l'unione col famoso Monastero benedettino di S. Placido Calonerò, presso Messina, sotto il governo di un altro santo abate, il Beato Placido Campolo, perché questi, calunniato e sospeso dalla carica, dovette ritirarsi a vita privata e per anni attendere con una vita esemplare dall'intervento miracoloso di Dio, la sua riabilitazione.
Intanto era maturato un avvenimento storico che avrebbe sovvertito la vita, l'amministrazione, lo spirito religioso di tutti i monasteri e le case religiose ricchi di proprietà: su di essi si abbatté il provvedimento più funesto per la vita monastica che fu l'istituzione degli Abati Commendatari, persone estranee all'ordine, le quali, per i loro meriti politici presso il Papa o il Re, erano autorizzate a percepire tutti i frutti e le rendite dei beni dei monasteri, lasciando ai monaci solo quel poco strettamente necessario per vivere.
Triste conclusione che diede a costoro la facoltà di fare da padroni anche all'interno dei monasteri entro cui si sentivano autorizzati a trasferirsi con la famiglia, con la sfrenata accolta dei servi e degli amici che da veri corruttori dei costumi e della disciplina, portavano dentro le case religiose dissipazione e mondanità poco confacenti ad un luogo di preghiera.
Il primo abate commendatario del Monastero di Maniace, tale Giovanni Ventimiglia, è del 1396. Egli infatti usufruì di tutti i beni del Monastero, assegnando ai monaci per il loro sostentamento la misera somma di 32 onze all'anno. Il più illustre dei commendatari fu il Card. Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI, sotto il quale pare sia avvenuta l'unione del Monastero di Maniace con quello di S. Filippo di Fragalà. Ma le cose non dovettero andare bene se si arrivò ad alterchi e bastonate. Ed in modo ancora più grave dovette continuare la decadenza del glorioso Monastero se lo storico del tempo si sente in dovere di annotare che in esso era tanto “lo sterminio et la ruina" che "di loco di santificazione" era diventato "ricettacolo di ladri". A detta del Radice, in contrasto col Pirri, 24 furono gli abati del Monastero, tra i quali famosi furono Guglielmo di Blois, poeta latino, un Nicolò Tedeschi poi Arcivescovo di Palermo, il Beato Guglielmo, già sopra ricordato come promotore della sfortunata "Congiura di Randazzo" e il Beato Placido Campolo, le cui reliquie sono custodite nella Chiesa di Santa Maria di Randazzo, fino ai nostri giorni, perché, deceduto in tale città, dove il Monastero possedeva una casa di abitazione, gli abitanti non vollero restituire le spoglie, nonostante gli ordini delle più alte autorità.
Ma ecco nel 1491 un altro cambiamento radicale per il Monastero: con bolla papale di Innocenzo VIII, cui era stato ceduto dal Card. Borgia, il detto Monastero fu aggregato all'Ospedale Grande Nuovo di Palermo. Dopo tale cessione, per quanto l'Ospedale avesse avuto imposto l'obbligo di non fare decadere il culto e la vita religiosa in esso, con l'impegno di erogare ai monaci ivi residenti la somma di 185 onze all'anno, il Monastero decadde rovinosamente nelle fabbriche e nella disciplina religiosa a tal punto che nel giro di tre secoli fu affidato dal sopraddetto commendatario Ospedale Grande Nuovo per ben undici volte a diverse famiglie religiose.
Nel 1585, andati via i Benedettini, subentrarono i Basiliani ai quali successero, pochi anni dopo, i Frati Eremiti di S.Agostino che, appena qualche anno dopo, furono sostituiti dai Frati Conventuali di S. Francesco (1589) e così, per anni ed anni, si susseguirono, a gestire il glorioso Monastero, una lunga serie di famiglie religiose che curarono il culto ma che non ebbero né pace nè duratura permanenza: infatti nel 1592 subentrano i Frati Pao lini; ritornarono per la seconda volta i Basiliani nel 1593; ma a costoro, nel 1601 appena, successero i Preti secolari di Bronte che nel 1602 furono sostituiti, per la seconda volta, dai Conventuali di S. Francesco che, dopo solo un anno, lasciarono il posto ai Preti secolari di Cesarò. Né qui si ferma l'avvicendamento degli abitanti del Monastero. Nel 1609 successero i Preti secolari di Palermo e poi ancora nel 1611 per la terza volta vennero i Basiliani. Nel 1693, il noto terribile disastro tellurico distrusse letteralmente, assieme a gran parte della Sicilia sud-orientale, il vecchio Monasteronormanno, abbattendo del tutto la Torre di Guardia, la parte absidale della Chiesa e la maggior parte delle celle di abitazione dei monaci e relativi servizi del Monastero. Tanto gravi furono i danni, che i Basiliani, seguendo l'esempio di altri monasteri sperduti in plaghe deserte, come quello del S. Salvatore della Placa presso Francavilla di Sicilia, decisero di trasferirsi a Bronte presso la Chiesetta di S. Blandano (allora fuori dell'abitato) che ancora, fino a qualche anno fa, conservava il loro ricordo nei ritratti degli abati e nella statua di S. Basilio. Ivi rimasero fino alla settaria soppressione delle Corporazioni Religiose che il giovane governo italiano attuò in Sicilia nel 1866. 1 Ma prima di tale data, un avvenimento di notevole portata storica aveva trasformato l'esistenza del glorioso Monastero e di tutto il suo immenso patrimonio terriero che misurava ben 9 mila ettari: il Re Ferdinando III, riconoscente per l'aiuto ricevuto dall'Ammiraglio inglese Orazio Nelson, in occasione della rivoluzione di Napoli (1796) che aveva messo in pericolo il trono dei Borboni, con decreto del 1799, avvalendosi degli usurpati poteri della "Regia Legazia” gli regalò le proprietà terriere e il Monastero, creandolo Duca di Bronte, con poteri feudali sul sopraddetto paese.
Con questo decreto cessò del tutto la funzione del Monastero e i discendenti del Nelson, nella linea collaterale degli Hood-Bridport, giacché egli non ebbe eredi diretti, da tale data gestirono come proprietà privata tutta la ducea. 1 frati avevano già restaurato le fabbriche e la Chiesa nella parte salvata dal sisma, ma trasferitisi a Bronte, fondarono colà una nuova sede che, come abbiamo detto, durò fino al 1866. Questo loro nuovo fabbricato per anni, dopo tale data, funzionò come sede municipale, ma ora è scomparso del tutto, soppresso dalla fame di suolo della ricostruzione. Unici testimoni della permanenza dei Basiliani in Bronte sono ancora la Chiesetta di S. Blandano e qualche residuo nella toponomastica del paese. I nuovi proprietari del vecchio Monastero non si limitarono ad amministrare la grande estensione terriera, ma ebbero per tutto il sec. XIX grande influenza sugli avvenimenti politici ed amministrativi del Comune di Bronte, vantando su di esso diritti feudali, solo nominalmente cessati con la Costituzione del 1812, ma praticamente perdurati per tutto il secolo passato ed oltre. Furono infatti parte interessata nei famigerati casi dell'eccidio di Bronte operato dal generale Nino Bixio nel 1860, inviato da Garibaldi a sedare la rivoluzione sfociata in un bagno di sangue. I fortunati discendenti di Nelson, fin dal principio del secolo passato, annualmente venivano ad abitare, per alcuni mesi, nel vecchio Monastero, ristrutturato nella parte residenziale in una sontuosa dimora fornita di tutte le comodità. Una folla di impiegati, contadini, affittuari, personale di servizio e dell'amministrazione, popolò il vecchio cenobio benedettino che nella fronte, a rivelare la presenza del grande nuovo signore, si ornava della bandiera italiana affiancata all'inglese.
Cosi là si svolse la vita per un secolo e mezzo. Penultima avventura della vasta plaga fu l'esproprio da parte del Governo Italiano, in occasione dell'ultimo conflitto bellico e l'assegnazione dell'immensa proprietà all'Ente Riforma Agraria che vi costruì, ai lati del Castello, il "Villaggio Caracciolo” in ricordo della più illustre vittima della rivoluzione napoletana, impiccato all'albero maestro della sua nave da Orazio Nelson. L'Ente quotizzò tutta la proprietà e la popolò di case coloniche modernamente e razionalmente attrezzate con silos, stalle, magazzini e abitazione. Ma l'Italia perdette la guerra e la proprietà fu rivendicata dai vecchi proprietari che abbatterono il “Villaggio Caracciolo", cacciarono i coloni e restaurarono i loro diritti e la loro maniera di amministrare.
Un avvenimento di questi ultimi anni ha fatto vivere al vecchio Monastero l'ultima fase della sua storia: l'ultimo erede, da buon seguace delle teorie moderne, vende ogni cosa, proprietà terriere e fabbricato, capitalizzando la somma di cinque miliardi. Prelevatore privilegiato e fortunato è stata l'Amministrazione Comunale di Bronte che è riuscita ad assicurarsi la proprietà del fabbricato e di 17 e più ettari di terreno vicino (1981) con l'intento di fare di esso un luogo turistico e di cultura di alto interesse e di prestigio.
Testo tratto da: “Il castello della Ducea di Maniace” di Salvatore Calogero Virzì - Giuseppe Maimone Editore -
Complice la spendida giornata di sole ...il giorno dell'Epifania si è dimostrato perfetto per visitare questa bella magione di cui ho deciso di condividere le immagini catturate.
Enzo