| continuo il Diario di Lupi.
L’imbarco Il giorno 29 luglio, all’improvviso, al mattino verso le ore 4, il sottufficiale inglese ci diede la sveglia con l’ordine di preparare tutta la nostra roba, perché si doveva lasciare il campo. Il maresciallo italiano comandante la nostra “gabbia”, come erano chiamati i vari reparti del campo, ebbe parole molto buone verso di noi, ci incoraggiò e ci raccomandò di avere sempre un buon morale durante il nostro nuovo viaggio. Ci salutò tutti con tanto calore e, ripensando a quei momenti, sembrava sentisse che ci sarebbe successo qualcosa. Verso le ore 10 ci incolonnammo per il porto di Suez, scortati da guardie indiane, percorrendo circa 4 chilometri a piedi sotto un sole bruciante. Era il periodo di massimo caldo. Ormai era certo che si dovesse salire su qualche nave. Eravamo stanchi e pieni di fame e non se ne vedeva l’ora, in quanto sulle navi si stava meglio che altrove. Eravamo proprio dei poveri illusi. Nel porto di Suez, grandissimo, vi erano molte navi sparse qua e là, alcune affondate. Alla vista di tutta quell’acqua che si stendeva all’infinito, cominciò a venirmi il mal di mare. Avevo già provato la spiacevole sensazione di cosa fosse, nei due giorni di viaggio da Napoli a Tripoli sul “Conte Rosso”, quando ci avevano inviato in Africa. Non si sapeva dove si sarebbe andati ma si immaginava un viaggio lungo, forse nel Sud Africa, e quindi mi sentivo già addosso 40 gradi di febbre per la paura che, non sapendo nuotare, mi succedesse qualcosa. Era la preoccupazione di tutti e in quella snervante attesa sulla banchina mi prese un forte mal di testa. Finalmente verso le 13 – eravamo in movimento dalle 4 di mattina – finì quella lunga attesa sotto un terribile sole di fine luglio, che ci aveva intontiti. Io ero sempre col mio carissimo compagno fatto prigioniero con me. A gruppi di 200-300, con un vaporetto, ci portarono fuori dal porto per salire a bordo di un imponente transatlantico che ci stava aspettando al largo. Leggemmo il nome: “Laconia”. Dagli oblò della nave molti occhi ci guardavano, forse erano dei civili già imbarcati e pronti e partire con noi. Forse per questo ci ispiravano una certa fiducia. Appena saliti sulla scaletta della nave, ci contarono. Ci fecero fare di corsa quei venti gradini, con la paura di cadere in acqua inciampando. A gruppi di 200-250, occupammo le stive. All’altezza dell’acqua c’era la “E” divisa in due reparti (“E 2” ed “E 3”), sott’acqua la “F” con un solo reparto (“F 2”). Forse c’era anche la stiva “D”. Io finii nella stiva “E 2” (ora, posso dire, con grande fortuna). Eravamo complessivamente 1840, oltre a 800 che sarebbero sbarcati in Sud Africa. Nella mia stiva ritrovai il concittadino Angelo Maffi con cui già ero stato in linea e con altri cercammo un posto per sistemarci. La nostra stiva, essendo all’altezza dell’acqua, era completamente buia perché non si potevano aprire gli oblò e quindi, oltre a mancare l’aria, si stava da mattina a sera con la luce delle lampade. Alle 14, un’ora dopo essere saliti sulla nave, arrivò il sospirato momento di metterci a tavola, con la nostra grande fame arretrata. Ogni tavola, lunga e stretta con due file di panche, aveva 18 posti. Due per ogni tavola dovevano andare in cucina con le “gamelle” (specie di marmitte) per prendere il cibo. Alla mia tavola c’erano l’abbiatense Maffi, il carissimo Pizzagalli, i cari Dagnino di Genova e Negrini di Bressana Bottarone, un compagno laureando di cui mi sfugge il nome e altri. I 18 della tavola sarebbero stati sempre gli stessi. Era dalla sera precedente che non si mangiava e la fame si faceva sentire. I due delle gamelle non arrivavano mai perché c’era tanta confusione e finalmente ci stringemmo tutti attorno per vedere cosa avevano portato. Una gamella conteneva circa due mestoli di brodo con dei pezzetti quasi invisibili di patate e carne, l’altra circa un mestolo di semolino giallo. C’era anche un pezzetto di pane per ciascuno, si può dire due o tre bocconi. Ci guardammo in faccia, incerti se quel cibo fosse per uno solo o per 18. Così accadde anche alle altre tavolate. Nessuno osò toccare le gamelle, non sapendo come procedere. Si chiamarono gli inglesi, si chiese senza capire la risposta ma alla fine ci rendemmo conto che quello era il nostro pranzo, per tutti e 18. Ma come dividerlo? Decidemmo di mettere in fila le nostre gamelle e che uno avrebbe effettuato la distribuzione. Eravamo tutti intorno a controllare che le cucchiaiate fossero uguali per tutti. Si cominciò con un cucchiaio per gamella, poi con altri due giri si arrivò ad avere tre cucchiaiate a testa di quella roba. Col medesimo sistema si distribuì una cucchiaiata di semolino per ciascuno. Alla sera il vitto era uguale, con marmellata e the invece del semolino. E così al mattino. Una volta alla settimana il cibo della prima gamella era sostituito col baccalà e un altro giorno con due fettine di salame. Quando però qualcuno, facendo le pulizie nelle cucine, riusciva con grande pericolo a prendere delle patate, ce le rubavamo l’uno con l’altro dopo averle messe a fette nell’aceto del baccalà. Quando invece c’era il salame, la sua “pelle” la tenevo in bocca tutto il giorno. Non riuscivamo a credere che quello sarebbe stato il nostro vitto anche in seguito, ma purtroppo nulla sarebbe cambiato, rendendoci privi di forze alla fine dei 45 giorni di navigazione. Ecco la nostra nuova casa, la nave. Al mattino, alle 6, sveglia. Ci davano un mestolo di the e un cucchiaio di marmellata. Niente pane. Verso le 10 si andava in coperta a prendere quei pochi minuti d’aria. Avevamo a disposizione qualche passatempo (carte da gioco e dama), ma interessava a pochi. Chi dormiva sui tavoli su cui si mangiava, chi sotto, chi sulle panchine, chi in qualche angolo, o comunque sul pavimento della stiva. Avevamo una coperta che serviva per la notte, mentre col pastrano, la giubba e la camicia si faceva un soffice materasso. Il salvagente era il nostro cuscino. Eravamo sempre riuniti a gruppi di amici e per il grande caldo stavamo accovacciati sul pavimento all’imbocco delle maniche a vento a respirare un po’ d’aria, discorrendo di tutto. Ricordavamo con tanta nostalgia i nostri paesi lontani, le nostre famiglie. Pensavamo a dove si stesse andando e al ritorno ma, anche se non sembra vero, speravamo di ritrovarci ancora un bel giorno, insieme, tutti a casa. Il mio caro compagno di prigionia era sempre vicino a me. Ricordo che gli avevo fatto disegnare l’Africa su un pezzo di carta. per seguire man mano il nostro viaggio. L’isola del Madagascar, occupata dai giapponesi, era ben evidenziata e temevo il momento in cui si sarebbe passati in quel punto. Certi giorni, quando si andava in coperta a prendere aria, ci facevano la doccia con dei forti getti d’acqua fredda e, mentre noi nudi tremavamo, gli inglesi dall’alto ci osservavano ridendo. Altri giorni si faceva la prova d’allarme. Al forte suono di un campanello, si doveva andare di corsa verso punti prestabiliti, mentre i cannoni della nave sparavano in mare contro ipotetici sommergibili. Ma quando l’allarme fu reale, altro che andare in quei punti prestabiliti, ci chiusero addirittura nelle stive... Le guardie polacche, per due volte e ogni volta per tre giorni consecutivi, ci lasciarono a pane e acqua avendo scoperto che qualcuno fumava o per altre ragioni. Alla sera, alle 20, silenzio assoluto. Più nessuno poteva parlare, bisognava mettersi a dormire. Ma era impossibile per il caldo. Allora alcuni, me compreso, alla trave che avevamo sopra la testa attaccavano la coperta con le scarpe ben legate per fare peso e poi la spingevano con le mani stando straiati sul pavimento, facendo così un po’ d’aria. Ci si svegliava continuamente per il sudore che colava dalla testa. In una delle ultime notti, mi venne rubato l’orologio che custodivo con tanta cura, probabilmente per essere scambiato con un pezzo di pane. La fame faceva fare di tutto. Devo ringraziare il libretto di preghiere che ero riuscito a tenere con me quando ero stato fatto prigioniero. Appartato, lo leggevo tutto ogni giorno, mentre la S. Messa me la leggevo almeno due volte al giorno. Dopo aver ricordato tutti i miei cari lontani, mi sentivo molto tranquillo. Negli ultimi giorni di navigazione eravamo tanto sfiniti da dover rinunciare ad andare in coperta a prendere la quotidiana boccata d’aria fresca, non essendo più in grado di fare quei pochi gradini della scaletta che dalla stiva ci portava in coperta. Mi rivedo, e non lo potrò mai dimenticare, attaccato al corrimano della scaletta mentre mi sorreggo con le ultime forze per non fare peso sulle gambe che non riuscivano a farmi fare i gradini. Anche altri dovettero rinunciare a quella boccata d’aria, per le loro condizioni dopo tanti giorni di quella navigazione. Eppure, durante quegli ultimi giorni sulla nave, quasi per un presentimento di ciò che sarebbe poi accaduto, sentivo di dover risparmiare le forze che mi erano rimaste. E devo essere grato a quel “suggerimento”, che si sarebbe poi rivelato di grande aiuto.
continua ...
continua il Lupi.
L’affondamento Ed eccoci, dopo ben 45 giorni di navigazione, a quella terribile notte del 12 settembre 1942. Nella nostra stiva avevamo formato un piccolo gruppetto unito da tanta amicizia e tutti i giorni si stava sempre assieme con i soliti discorsi e con le solite preoccupazioni. Io, gli abbiatensi Grassi e Maffi, i cari Pizzagalli milanese e Dagnino genovese, Negrini di Bressana Bottarone, quel bravo ragazzo laureando appena arrivato in Africa, fatto prigioniero proprio con me, ed altri. A un certo punto Grassi ci avvertì che era arrivata la solita ora per metterci a dormire. Come sempre sul pavimento, sotto le tavolate. Erano le ore 20! Ci salutammo tutti e mentre Grassi si stava portando al suo posto, poco lontano da noi, sentimmo improvvisamente un tremendo colpo proveniente da sotto la nave con un rimbombo pauroso che ci fece traballare. Ci guardammo in faccia, ci fissammo uno con l’altro senza riuscire né a parlare né a muoverci. Una grande paura stava entrando in noi. Le prime mezze parole che con sforzo poterono uscire dalla bocca – ricordo di essere stato proprio io a pronunciarle, e non so come – furono: “Sarà forse stata una mina”. Parole dette per rincuorarci per la grande paura e sperando veramente che fosse stato il colpo di una mina. Ma eravamo ancora lì immobili con questo tremendo pensiero, con la testa che ci stava scoppiando e con il sangue che in quel momento non circolava più, quand’ecco una seconda esplosione molto più forte, che scosse fortemente la nave, inclinandola. La cosa più terribile che mai e poi mai pensavamo che ci potesse capitare, anche se era una nostra grande preoccupazione, si era purtroppo avverata. Eravamo stati colpiti da due siluri! Una cosa terribile... non si poteva che piangere, veramente piangere... Impossibile descrivere cosa avvenne. Momenti strazianti, disperazione, invocazioni d’aiuto agghiaccianti! Affondati in pieno oceano Atlantico, chiusi nelle stive, una salvezza impossibile, una terribile morte davanti agli occhi... Un immediato ricordo dei cari lontani che non avremmo mai più rivisto... Chi urlava, chiamava, cercava il caro compagno che non trovava più. Grande scompiglio, un correre di qua e di là, ma alla fine si era sempre nel medesimo posto. Per tutti una spaventosa tragedia, si tremava, mancava anche il respiro. Noi, del nostro gruppetto, dopo essere stati colpiti dal secondo siluro, non ci siamo più visti. Stavamo salutandoci per metterci a dormire e un attimo dopo non ci saremmo più rivisti. Insieme avremmo avuto più coraggio, ci saremmo tanto aiutati. Penso che quella grande paura che era entrata in noi, in quei primi momenti, ci abbia sconvolto, ci abbia resi irriconoscibili l’uno all’altro. In preda a tanta angoscia, a tanta disperazione, molti si demoralizzarono accasciandosi sul pavimento o in qualche angolo a piangere. Chiusi nelle stive, con la nave che sempre di più si inclinava, avevamo quasi tutti perso ogni speranza di salvezza, ogni forza, ogni volontà per poter resistere. Ma comunque bisognava riuscire a superare questi primi terribili momenti. Nel frattempo avevo subito pensato al mio salvagente e, in quella semioscurità, mi ero gettato, facendo anche un capitombolo, su quello che si trovava poco distante, sul quale di solito dormivo. Di giorno non lo perdevo mai di vista e di notte era il mio cuscino. Pur col grande terrore che avevo, ad un certo momento, non so come, entrò in me una certa calma, quasi una calma istintiva che mi fece capire che nessuno avrebbe mai potuto aiutarmi e che dovevo resistere da solo e da solo cercare di potermi salvare. Calma che mi diede la forza e il coraggio che avevo perso. Da dove veniva questo aiuto? Bisognava cercare di uscire dalla stiva per poter andare in coperta. Eravamo in molti ammassati sulla scaletta ma nessuno riusciva ad andare avanti. Il cancello era stato chiuso dalle guardie polacche che ci rimandavano indietro dando colpi di baionetta e sparando. E qui vi furono subito i primi morti. Alla fine però il cancello venne sfondato dalla massa che dietro spingeva. Anch’io ero in prossimità della scaletta e, non andando avanti nessuno, stavo rompendomi la testa per trovare un’altra via d’uscita. Vidi qualcuno che cercava di arrampicarsi tra le condutture di legno che racchiudevano la manica a vento, risalendo così al piano superiore, e immediatamente presi anch’io quella decisione. Arrivato con le mani al piano superiore, non riuscivo più a risalire col corpo. Ero lì appeso con le mani attaccate come una tenaglia. Chiesi a quello che era riuscito a risalire di darmi una mano, ma andò via senza guardarmi. Allora, facendo uno sforzo tremendo, con le mani... con le dita... proprio con le dita, in preda a tanta disperazione, riuscii a risollevarmi, arrivando così al piano superiore, sfinito. Arrivai in un salone buio, sedie e tavoli rovesciati, non c’era nessuno. Con fatica, a tastoni, riuscii a trovare la porta per uscire, una porta di ferro, pesante, e mi trovai così in coperta. Finalmente ecco il cielo che già si stava oscurando. Ecco anche quel pauroso oceano che, con quelle oscure ondose acque, faceva paura. Ora si doveva andare in acqua. Ma come si faceva a lasciare la nave? Con che mezzo? In coperta non c’era quasi più nessuno e quindi dovevo aver impiegato un bel po’ di tempo per arrivarci. Le scialuppe, quasi soltanto con inglesi e polacchi, se ne erano già andate al largo. Ma chissà quanti nostri cari compagni erano ancora nelle stive e stavano cercando disperatamente una via d’uscita, una via di salvezza. Momenti dolorosissimi, da immaginare. Nell’oscurità che si stava avvicinando, ritrovai l’abbiatense Maffi. Dallo scoppio dei siluri non c’eravamo più visti. Non ci siamo chiesti nulla dei nostri compagni. Eravamo in preda al terrore per come lasciare la nave, forse eravamo gli ultimi, il resto non contava più. Con altri due o tre, che trovammo in coperta, cercammo qualcosa per poter abbandonare la nave. C’erano delle scialuppe ancora legate, ma non c’era nessuno che potesse slegarle per calarle in acqua. Le guardavamo con gli occhi imploranti. I pochi marinai rimasti giravano di qua e di là, sembrava chissà cosa dovessero fare. Ci guardavano con delle facce quasi sorridenti, non parlavano e si intuiva che, presi pure loro da tanto terrore, oramai non capivano più niente. Si sentivano anche colpi di rivoltella, forse qualche inglese o polacco aveva rivolto l’arma contro di sé.
segue
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