Ancora sul MAS 38 di Valerio

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view post Posted on 21/12/2023, 20:34
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CITAZIONE (-Chuck- @ 20/12/2023, 00:34) 
Gentilissimo, ti ringrazio molto, ora ricordo meglio. Ma delle autopsie che vennero eseguite dopo l'esposizione a piazzale Loreto non resta un referto? Furono insufficienti? Considerando che gli americani ebbero il tempo di estrarre una porzione di cervello e portarsela a casa sarebbe il minimo pensare che quantomeno abbiano estratto i proiettili.

Bisogna tenere presenti sia le condizioni del cadavere dopo Piazzale Loreto, sia le condizioni "logistiche" in cui si svolse l'autopsia.
Fra le diverse fonti un'occhiata qui

http://web.tiscali.it/archinet/storia.htm

www.larchivio.com/xoom/verbale7241.htm
 
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view post Posted on 21/12/2023, 20:38
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CITAZIONE (lowland @ 21/12/2023, 20:17) 
Per far arrabbiare kanister e farlo best...... ancora un po' stasera ho sentito un'altra castroneria da parte di un giornalista sulla sparatoria a Praga. L'attentatore era, secondo il giornalista, fornito di "un fucile a canna lunga"......... Fate un po' voi i commenti.

Probabilmente un kentucky, almeno per quanto ricordo erano quelli con la canna più lunga.
 
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view post Posted on 21/12/2023, 20:52
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Sarà questo di Wayne Watson con canna di 44 pollici?

Caaaattura
 
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view post Posted on 21/12/2023, 21:17


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CITAZIONE (niemand @ 21/12/2023, 20:34) 
Bisogna tenere presenti sia le condizioni del cadavere dopo Piazzale Loreto, sia le condizioni "logistiche" in cui si svolse l'autopsia.
Fra le diverse fonti un'occhiata qui

http://web.tiscali.it/archinet/storia.htm

www.larchivio.com/xoom/verbale7241.htm

Ringrazio molto anche te, niemand. Letture non piacevoli ma interessanti, peccato solo che alcuni link interni delle pagine siano ormai "rotti".
Ad ogni modo ciò che si legge è sufficiente: nessuna autopsia avrebbe potuto risolvere il nostro quesito in quanto per tutti i colpi fatali è presente un foro d'uscita.
 
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view post Posted on 21/12/2023, 23:52
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CITAZIONE (lowland @ 21/12/2023, 20:17) 
Per far arrabbiare kanister e farlo best...... ancora un po' stasera ho sentito un'altra castroneria da parte di un giornalista sulla sparatoria a Praga. L'attentatore era, secondo il giornalista, fornito di "un fucile a canna lunga"......... Fate un po' voi i commenti.

Quello doveva essere uno che ha letto i libri di Salgari e la carabina indiana di Tremal Naik "dalla lunga canna" la cui palla
"giunge morta sul ponte della nava inseguita" annunciando il prossimo abbordaggio
 
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view post Posted on 1/1/2024, 16:08
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Ritorno sull'argomento "Uccisione Mussolini" perchè un paio di giorni di festa mi hanno consentito di raggruppare tutte le notizie e gli articoli di giornale che negli anni ho potuto raccogliere. C'è di tutto, dalle analisi tecnico scientifiche, alle millanterie, alle semplici elocubrazioni, lascio a voi il piacere di decidere a cosa credere.
Resterebbero da citare un paio di Beretta '34 presumibilmente utilizzate al posto di un mitra e tutta la storia degli inviati del SOE,che tuttavi esce dagli schemi.
A scanso equivoci e deviazioni varie faccio presente che il mio interesse verte solo sulle armi che sarebbero state usate e vi chiederei se avete osservazioni di limitarvi a questo campo.


Osservazioni sul mistero della morte
di Mussolini e Claretta Petacci
di Ambrogio Viviani

GEN. (RIS) ON. DOTT. AMBROGIO VIVIANI
Nato a Cremona nel 1929 in famiglia di tradizioni militari, sposato ha tre figli.
Principali studi: Accademia, Scuola di applicazione, Scuola di Stato Maggiore italiana e tedesca, Istituto Stati Maggiori interforze, Centro alti studi difesa
Principali Comandi: 3° reggimento bersaglieri, Brigata meccanizzata Goito, Brigata paracadutisti Folgore.
Principali incarichi: Addetto militare in Germania, 0landa, Danimarca, Capo sezione controspionaggio del SISMI.
Brevetti di paracadutista; civile, militare italiano e tedesco, Forze speciali USA.
Appassionato di studi storico-militari. Ha pubblicato tra l'altro: Storia del 3° reggimento bersaglieri, Storia e cronaca del Corpo dei bersagheri, Storia dei Servizi segreti italiani, Storia della Massoneria lombarda, Manuale della controspia (pubblicato anche in Russia e in Polonia), la battaglia di Novara 1849, la battaglia di Magenta 1859.
Partecipa a convegni di studio, tiene conferenze, collabora a pubblicazioni varie.
Nel 1986 per protesta ha dato le dimissioni dall'Esercito.
Già Deputato della X.a Legislatura.
Laurea di dottore in Scienze strategiche presso l'Università di Torino.
Molte sono, ancor oggi, le ipotesi su la morte di Benito Mussolini, ma la verità giace ancora negli archivi di quegli organismi informativi che burocraticamente continuarono a funzionare passando con meritevole indifferenza alle dipendenze di un Governo, o di un altro. All'epoca (ed ecco gli archivi dove scavare) operavano nel nord Italia:
- il SIS (Servizio segreto di informazione ) britannico, poi M16 (branca per l'estero) oggi D16;
- l'OSS (Office of strategic service) degli USA, poi CIG, oggi CIA;
- il NKGB (Comitato del popolo per la sicurezza dello Stato) poi MGB, poi KI (Comitato per le informazioni), poi KGB (Oggi SVR e FSK poi FSB)
- il NKVD (Ministero del popolo per gli affari interni, operante anche all'estero) poi MVD, poi KI, poi KGB, etc.
-Il Direttorato esteri (poi KI) del GRU (Servizio segreto militare sovietico di informazioni, oggi in parte russo);
-Distaccamento di Como del Reparto Delta del SID (Servizio informazioni difesa, della RSI poi Centro di Milano del SIM, poi del SIFAR, poi del SID (della Repubblica attuale), oggi Centro di Milano del SISMI;
- Centro di Como del Reparto Sigma del SID della RSI, già Centro della GNR della RSI, poi Centro di Como del Servizio di informazione dei Carabinieri;
- Ufficio informazioni del II reparto dello Stato Maggiore esercito, già SIM (Servizio informazioni militari), dal giugno 1945 nuovamente SIM e per ultimo SIOS (Servizio informazioni operativo situazione) dell'Esercito)
- Servizio informazioni della Guardia di Finanza che all'epoca faceva il triplice gioco operando per la RSI, per il Regno del sud e per il CVL.

L'archivio più importante rimane in ogni caso quello del PCI, oggi PDS, che gelosamente custodisce con la documentazione di comodo anche quella riferita alla verità.

E veniamo ai fatti limitatamente al periodo di interesse dalle 2.45 alle 17.48 del 28 aprile 1945.

Verso le ore 5 del giorno 28, dopo vicissitudini varie, Mussolini, arrestato alle 15.30 del 27 aprile a Dongo da Urbano Lazzaro (Bill) vice commissario politico della 51a Brigata partigiana, e Clara Petacci, arrestata dallo stesso Bill, arrivano in casa Lia e Giacomo De Maria, in località Giulino di Mezzegra.
Essi, partiti da Dongo alle 2.45 sono accompagnati da:
- Luigi Canali (Neri) Capo di Stato Maggiore della 52a Brigata della Divisione "Garibaldi" del CVL, da tempo amico dei De Maria;
- Pier Luigi Bellini delle Stelle (Pedro) comandante (forse ad interim) della 52a Brigata ;
- Michele Moretti (Pietro) commissario politico della stessa 52a;
- Giuseppina Tuissi (Gianna) staffetta della 52a;
- Giuseppe Frangi (Lino), nipote dei De Maria, e Guglielmo Cantoni (Sandrino o Menefrego) partigiani della stessa 52a;
- due autisti non noti (uno era detto Carletto).
I due prigionieri, dopo una sosta nella cucina, vengono rinchiusi al primo piano nella stanza dei figli De Maria che vengono mandati a dormire presso parenti.
Lino e Sandrino restano di guardia; Pedro ritorna a Dongo; Neri, Pietro e Gianna partono per Como dove arrivano verso le 6 e dove verso le 6.30 informano Dante Gorreri (Guglielmo) segretario della locale federazione del PCI alloggiata a palazzo Terragni, in merito alla posizione di Mussolini e degli altri prigionieri e in merito a tutto ciò che questi portavano con loro. Canali (Neri) informa anche i componenti del locale CLN sito in Prefettura.
La notizia della cattura di Mussolini era stata data a Milano alle 17.45 del giorno precedente.

Verso le ore 8 dello stesso giorno, con la 1100 targata BN 8840, guidata forse da Giuseppe Perotta o forse da un certo Barba, e con un automezzo tipo 121, partiti da Milano, arrivano a Como:
- Luigi Longo (Italo ma al momento con il nome di battaglia di Valerio), comandante delle Divisioni Garibaldi, numero 1 del PCI al nord, qualificatosi per Walter Audisio colonnello partigiano;
- Aldo Lampredi (Guido) vice di Longo, numero 2 del PCI;
- Alfredo Mordini (Riccardo) ispettore partigiano di zona, fanatico comunista da sempre, commissario politico della 51a Brigata "Capellini" della Divisione "Gramsci" dell'Otrepò Pavese, entrata in Milano alla sera del 27 aprile;
- Orfeo Landini (Piero) commissario politico della 3a Divisione "Aliotta";
- 20 partigiani (secondo altri 12 o forse 14) della 51a Brigata, mai identificati, alcuni dei quali ancora oggi viventi e finalmente noti.
Per raccogliere ogni informazione Longo si presenta al CLN locale sito in Prefettura; Lampredi con Mordini alla federazione comunista locale dislocata a palazzo Terragni.
Il gruppo asserisce di avere il compito di trasferire Mussolini e i prigionieri a Milano ma in realtà Longo vuole, o deve, fucilarli sul posto per evitare possibili interferenze straniere o italiane.
Né il CLNAI né il CVL hanno emanato un ordine del genere; forse l'ordine verbale a Longo è stato dato da un "Comitato insurrezionale" autocostituitosi in Milano con Pertini, Sereni, Valiani e lo stesso Longo.
L'ordine scritto per la fucilazione verrà dato dal CLNAI nel pomeriggio del 29 aprile e cioe' a cose fatte.
E' da ritenere comunque verosimile che l'intenzione iniziale del Comitato, o di chi per esso, sia stata quella di fucilare almeno 15 prigionieri, Mussolini compreso, nel piazzale Loreto di Milano, dove il 14 agosto 1944 erano stati fucilati 15 partigiani per rappresaglia dopo la uccisione di 2 soldati tedeschi.

Verso le ore 9, al corrente della situazione, di comune accordo viene deciso di procedere come segue:
- Longo (Valerio) si porterà a Dongo per riunire i prigionieri e predisporre per la loro fucilazione nella piazza del paese; sequestrato l'autocarro Fiat 634 della ditta Pessina e l'Aprilia 1500 targata RM 001 del Servizio segreto della Regia Marina della quale era dotato un Agente sul posto, verso le ore l2 quando finalmente é riuscito a disporre degli autoveicoli necessari, Longo parte, con la scorta per Dongo dove arriva verso le ore 14;
- Lampredi (Guido) e Mordini (Riccardo) andranno a Bonzanigo a prendere Mussolini e Clara Petacci per trasferirli a Dongo; essi sono accompagnati da Moretti (Pietro) come guida e forse hanno lo stesso autista Perotta; con la 1100 di Valerio verso le ore 9.30 partono per casa De Maria;

E' logica la preoccupazione di Longo di assumere al più presto con due elementi fidatissimi (che partono prima e con la sua 1100) il controllo di Mussolini ancora affidato a due giovani partigiani, e la sua decisione di organizzare personalmente a Dongo una teatrale fucilazione dei prigionieri unitamente al recupero di documenti e di altri valori.

Verso le ore 11 Lampredi e Mordini sono a casa De Maria. Moretti rassicura i coniugi e Lino con Sandrino che a turno sono stati di guardia sul ballatoio davanti alla stanza dei prigionieri.
Mussolini e Clara Petacci stanno ancora cercando di riposare e sono sommariamente vestiti, non avendo altro, ed essendo gli abiti ancora bagnati per la forte pioggia. Passati i momenti più critici dalla cattura avvenuta circa 20 ore prima, ritenendo ormai di venire sottoposto ad un processo, rinunciato ad un possibile tentativo di fuga (la stanza aveva una finestra solo di tanto in tanto controllata), Mussolini in parte ripresosi fisicamente e spiritualmente, trovandosi di fronte due sconosciuti rifiuta di obbedire all'ordine di seguirli.
Segue una colluttazione durante la quale Mussolini viene gravemente ferito da alcuni colpi di pistola Beretta cal. 9 sparati da Mordini. Anche Clara Petacci (coinvolta) viene ferita con due colpi della stessa arma il cui caricatore contava 7 colpi.

Urbano Lazzaro (Bill) al momento dell'arresto sostiene di avere disarmato Mussolini della sua pistola "Glisenti" secondo altri ne era ancora in possesso. Nella stanza venne poi ritrovato un coltello da cucina che era stato sottratto ai De Maria.

Lampredi, Mordini e Moretti si trovano ora di fronte ad un grave problema e ripartono subito per Dongo per riferire a Longo. Arrivati in paese verso le 14.30, Lampredi sulle scale del Municipio informa Longo e tra i due scoppia naturalmente un violento alterco.
La fucilazione dei prigionieri viene sospesa in attesa di rimediare in qualche modo al fallito trasferimento di Mussolini.
Verso le ore 15.30 Longo, Lampredi, Mordini e forse Canali (Neri) partono per casa De Maria utilizzando una 1100 guidata da Giovanbattista Geninazza occasionalmente sulla piazza di Dongo, anziché una delle cinque disponibili autovetture della 52a Brigata anch'esse sulla piazza e guidate da partigiani. E' evidente che Longo non vuole con se testimoni qualificati.

Arrivati sul posto completano la vestizione di Mussolini e di Clara Petacci, li trascinano al vicino cancello (a 350 metri) di villa Belmonte. Geninazza viene allontanato, Lino e Sandrino vengono lasciati in casa De Maria.
Mussolini viene necessariamente disteso a terra e la donna gli é in qualche modo accanto.
Segue una raffica di mitra cal. 7.65 e cioé la fucilazione "ufficiale". E' di scarso interesse, sapere chi abbia effettivamente sparato. Longo nella veste di Walter Audisio dichiarò di averlo fatto; la stessa cosa sostenne anni dopo Moretti; Lampredi diede il colpo di grazia con la pistola di Moretti.

Alle ore 17.48 dello stesso 28 aprile in Dongo ebbe luogo la fucilazione di 15 prigionieri ad opera di un plotone di esecuzione comandato da Alfredo Mordini (Riccardo) con il vice comando di Orfeo Landini (Piero).

La "fucilazione" di Mussolini e di Claretta Petacci era stata fatta necessariamente senza testimoni (per cosi' dire di nascosto) essendo impossibile farla in pubblico insieme agli altri.
Clara Petacci venne eliminata perché non testimoniasse su quanto era accaduto in casa De Maria.

Giuseppe Frangi (Lino), nipote dei De Maria, venne trovato morto pochi giorni dopo, il 6 maggio, alle ore 2.00. A quell'ora lo trova Luigi Canali (Neri) con il quale aveva evidentemente un appuntamento. Neri viene ucciso a sua volta tre giorni dopo; Giuseppina Tuissi (Gianna) che indaga sulla sua scomparsa viene uccisa il 23 giugno.
Guglielmo Cantoni (Sandrino o Menefrego), l'altro sorvegliante di Mussolini, si rifugia per alcuni anni in Svizzera.

Luigi Longo, dapprirna intenzionato ad assumere la veste di "eroe nazionale" nella ottica comunista, di fronte a quanto accaduto conferma la sua copertura iniziale di colonnello ragioniere Walter Audisio (Valerio) il quale da buon comunista si presta al gioco.

Il 30 aprile 1945 il professor Caio Mario Cattabeni fece l'autopsia della salma di Mussolini insieme a medici americani, la cui documentazione scritta, fotografica e filmata è tutt'ora inedita e conservata nell'archivio della CIA (come indicato all'inizio).
Mussolini era stato colpito da 9 colpi, tutti a brucialpelo, dei quali 4 di mitra cal 7.65 concentrati sulla spalla sinistra e 5 di pistola cal. 9 dispersi sul fianco destro con diverse angolazioni di entrata.
Aldo Lampredi (Guido) il vice, di Longo, qualificandosi per il generale medico Piero Bucalossi (Guido anch'egli) vietò l'autopsia della salma di Clara Petacci; presente era anche il prof. Alberto Cavallotti (Albero) commissario politico della Divisione "Gramsci".

Nel maggio del 1956 venne riesumata la salma di Clara Petacci e durante la conseguente autopsia vennero trovati due proiettili di pistola cal. 9 e nessuno di mitra.

Alfredo Mordini (Riccardo)*** al momento della sua morte alcuni anni fa, consegnò la sua pistola Beretta cal 9 matricola 778133 (da lui conservata illegalmente trattandosi di calibro vietato ai civili) alla moglie (ora deceduta) dichiarando a voce e per iscritto che con quella pistola era stato ucciso Mussolini. La moglie consegnò la pistola all'amico Piero Boveri già staffetta della 51a Brigata la stessa di Mordini. Boveri consegnò a sua volta la pistola ad una persona di fiducia.
La pistola é ora conservata in una Banca. Oltre ad essere un cimelio storico, consente un confronto con i proiettili recuperati dalle salme di Benito Mussolini e di Clara Petacci.

Il mitra cal 7.65 mod 38 matricola 20830 è conservato nel museo del KGB in Mosca dove i comunisti italiani ritennero doveroso inviarlo e dove il sottoscritto ha avuto la possibilità di vederlo e di sentirne la storia.

Il criminale e indiscriminato massacro del 28 aprile 1945, con la barbara esposizione del giorno dopo a piazzale Loreto, fu non l'unico ma certo il più importante incentivo per i tanti assassini dei mesi successivi.

Gen. Ambrogio Viviani
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***Enzo Cicchino, il direttore de "L'Archivio", giorni dopo la pubblicazione in Rete
di questa pagina, il 23 dicembre 2002 ho ricevuto via e-mail, da un amico, questa
lettera:
Caro Enzo, mi permetto di segnalarti una piccola precisazione circa l'articolo del Gen. Ambrogio Viviani "La presunta pistola con cui sarebbe stato ucciso Mussolini".
Nel libro di Fabrizio Bernini "Così uccidemmo il Duce" (C.D.L. Edizioni - 1998), nella nota n° 26 a pag. 164, Bernini dice che "Guido" (Aldo Lampredi) sparò a Mussolini con una Beretta 34 calibro 9, indicando come la matricola
della pistola fosse 778133 e che a Dongo, dopo l'esecuzione del Duce, la diede a "Riccardo" (Alfredo Mordini) perchè la conservasse per ricordo.
Alla sua morte, la moglie la cedette al partigiano varzese Piero Boveri che la conservò fino al 1983, quando decise di cederla al Museo Storico di Voghera (PV).
La foto a pag. 160 del predetto libro mostra appunto la Beretta 34 di Lampredi, conservata (dice sempre Bernini, nel 1998) presso il Museo Storico di Voghera (PV). Come si può ben notare, intorno alla morte di Mussolini, più passa il tempo, più si infittiscono i misteri.
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L'Istituto Gramsci e gli Archivi albanesi presentano oggi l'arma che avrebbe sparato contro il duce
Il mitra che uccise Mussolini dal partigiano Valerio a Tirana
Del fucile si è già detto molto: che era stato spartito tra i partigiani o inviato a Mosca
DI OMERO CIAI PAOLA COPPOLA
ROMA - Uno dei misteri irrisolti della Resistenza, la destinazione dell'arma che uccise Mussolini, sarebbe risolto. Ne è convinto il professor Giuseppe Vacca, direttore dell'Istituto Gramsci, che oggi presenterà insieme al direttore dell'Archivio storico dell'Albania, il mitra, un Mas 7.65 di fabbricazione francese, con cui i partigiani avrebbero ucciso Mussolini e Claretta Petacci.

A riprova dell'autenticità dell'arma c' è un documento, una lettera autografa del colonnello Valerio. Nella lettera, l'autore dell'esecuzione del Duce, dichiara di regalare ad Enver Hoxha, leader comunista dell'Albania, il fucile grazie al quale eseguì la condanna a morte. Ma non è tutto così semplice perché, a sentire i protagonisti, la vicenda del mitra è ancora un enigma. Tanto per fare un esempio, taglia corto il professor Paolo Murialdi, storico ed ex partigiano della Brigata "Garibaldi" di Voghera: "Il mitra di Mussolini a Tirana? Macché - afferma - , ogni anno esce una versione diversa sulla fine fatta dall'arma che ha ucciso il Duce. Sono state dette tante sciocchezze, ma questa è una delle più grosse che ho sentito finora". Anche il giornalista Arrigo Petacco, autore di numerose opere sul fascismo e la Resistenza, è dubbioso: "A Tirana? E' curioso. Perché mai Walter Audisio avrebbe dovuto regalare un cimelio storico di quel valore ad un dittatore comunista di seconda fila?".

Era il 28 aprile del 1945. Il Duce e la sua amante erano stati intercettati il giorno precedente a Dongo da una brigata di partigiani. Arrestati e portati a Mezzegra, sul lago di Como. Al momento dell'esecuzione i personaggi principali di questa storia erano tre: il colonnello Valerio, ossia Walter Audisio, di professione ragioniere; Michele Moretti, un comunista locale; Aldo Lampredi, il commissario politico del Pci. I fatti, come si sa, sono incerti. Per la vulgata passò alla storia che a eseguire la condanna a morte di Mussolini fu Audisio. Ma non con il suo mitra, che s' inceppa, bensì con quello di Moretti. Anche Lampredi prova a sparare, ma inutilmente, perché il grilletto della sua pistola si inceppa.
Vero, falso? La versione ufficiale è stata messa in dubbio da molti di coloro che, negli anni, si sono occupati della vicenda. Ma andiamo avanti. Sempre secondo la versione ufficiale, il mitra, il Mas modello 1938, che i partigiani avevano sottratto come "bottino di guerra" alla brigata nera che accompagnava il Duce nella sua tragica fuga, venne portato a Mosca e regalato, come un cimelio, a Stalin. Questa ricostruzione oltre a non aver mai convinto è stata confutata da numerose altre - sembra che addirittura Luigi Longo, il comandante "Gallo", ricevette in regalo un mitra "che aveva ucciso Mussolini" - e venne praticamente cancellata da Michele Moretti che, pochi mesi prima di morire, nel 1995 a 87 anni, raccontò che il "vero" Mas 7,65 era sempre stato conservato nella sua soffitta, a Como, in via Polano 83. Non basta. Anche perché nessuno, morto Moretti, trovò quel mitra. E, dalle diverse ricostruzioni, emerse un'altra verità forse altrettanto fantasiosa ma, a detta di molti, sicuramente più credibile.
Il famoso mitra non venne spedito a Mosca, né rimase a Walter Audisio. Piuttosto venne smontato e i suoi vari pezzi "spartiti", come piccoli trofei, tra i partigiani superstiti dell'operazione che portò alla cattura e alla morte del Duce. Introvabile, dunque. Poi, gli stessi partigiani avrebbero utilizzato una serie di cloni. Altri Mas modello 1938 sottratti ai fascisti sarebbero stati regalati come l'arma dell'esecuzione ai vari leader comunisti, Longo e Stalin compresi.

Anche sul destino della pistola "inceppata" che avrebbe impugnato Aldo Lampredi esistono diverse versioni. Murialdi smonta quella che la vorrebbe in Lombardia: "Anche a Voghera dicono di aver trovato la pistola che ha ucciso il Duce, e oggi la espongono in un museo. Probabilmente neanche quella è autentica". Poi continua: "Questi episodi ci dimostrano che in Italia, a distanza di più di cinquant' anni, su alcuni fatti storici non potremo mai conoscere la verità".

E l'arma nella vicenda dell'esecuzione del Duce non è l'unico elemento su cui esistono delle contraddizioni: diverse ricostruzioni la mettono in mano al colonnello Valerio o al partigiano Pietro, alcune parlano della lettura di una condanna a morte del Duce, altre la negano. "La versione dei fatti più credibile - aggiunge Murialdi - per me resta quella scritta nella memoria che Lampredi, il partigiano Guido, ha consegnato ad Armando Cossutta, che allora era membro della Segreteria del Partito Comunista, nel 1972". Quella per cui la fucilazione di Mussolini avvenne davanti al cancello di villa Belmonte, non fu letta alcuna sentenza e a sparare fu il colonnello Valerio.

(31 luglio 2004)
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Ecco il mitra che uccise Mussolini «A Tirana per nasconderlo ai russi»
Chiuso in un ripostiglio del Museo nazionale. Il direttore: qui era al sicuro L' arma era un dono del partigiano Audisio ai comunisti albanesi. Ora il premier Fatos Nano pensa di restituirla all' Italia Spunta anche il presunto figlio di un militante della Resistenza: «Quel cimelio è stato portato qui da mio padre»
DAL NOSTRO INVIATO TIRANA - Il legno del calcio è scuro e un po' lesionato. La parte metallica arrugginita, con la canna sottile, sulla quale non c' è più il nastrino rosso annodato dai partigiani. Eccolo qui il mitra che sparò addosso a Benito Mussolini. Una bella impresa, ritrovarlo. Era chiuso in un ripostiglio del Museo nazionale di Tirana ed è stato necessario richiamare dal mare, dov' era in vacanza, un funzionario di nome Ilyr, perché solo lui ha le chiavi del sotterraneo del Museo in cui sono ammassati i cimeli della lotta di liberazione del popolo albanese. Ilyr si è messo a rovistare fra uniformi della Seconda guerra mondiale, scarponi sfondati, pacchi con dentro lettere di soldati. E a un certo punto salta fuori lo storico reperto avvolto nel cartone. Come quest' arma sia finita in Albania l' hanno raccontato sul Corriere il 31 luglio Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci, e Shaban Sinani, direttore dell' Archivio di Stato albanese. Una vicenda romanzesca alla quale siamo in grado di aggiungere nuovi particolari. «Due anni fa - spiega il professor Sinani - catalogavo i documenti dell' archivio storico. E salta fuori quella strana lettera». Era firmata da Walter Audisio, il partigiano «colonnello Valerio», che si è sempre dichiarato autore dell' uccisione del Duce. Indirizzata al Comitato centrale del partito comunista albanese, reca la data del novembre 1957 e annuncia l' invio in «dono» dell' arma «con la quale, il 28 aprile 1945, venne giustiziato il criminale di guerra Benito Mussolini». Del trasporto si occupa un funzionario dell' ambasciata albanese a Roma, Edip Cuci. In una valigia diplomatica, esente da controlli, il mitra approda a Tirana. Lettera e arma arrivano sul tavolo del viceministro degli Esteri Vasil Nathanaili. Il quale se ne libera subito. Il 30 novembre 1957 manda il mitra a Hysni Kapo, spiegandogli che Audisio chiede di mantenere il segreto. Non a caso quel cimelio finisce nelle mani di Kapo. E' l' uomo forte del regime, braccio destro del dittatore Enver Hoxha, controlla i servizi segreti e tiene i rapporti coi «partiti comunisti fratelli». Kapo è molto amico di Audisio. Nella primavera del ' 57, pochi mesi prima della consegna del mitra, Audisio passa un periodo di vacanze in Albania. Kapo e gli altri boss del partito lo trattano come un ospite speciale. A quell' epoca Audisio è deputato del Pci e si è fatto accompagnare da un altro parlamentare comunista, l' onorevole Semeraro, un po' seccato per l' accoglienza festosa riservata ad Audisio. In alcune lettere ai capi comunisti italiani e a quelli albanesi esprime la sua amarezza: ad Audisio tante attenzioni e a lui niente. Sono piccoli sprazzi che lasciano intuire come il rapporto di Audisio coi capi albanesi dovesse essere molto solido. «Le carte - dice il professor Sinani - fanno ritenere che tra i comunisti italiani e quelli albanesi esisteva un feeling importante. Al punto che negli anni Cinquanta si era perfino parlato della possibilità di far espatriare Togliatti in Albania in caso di pericolo per la sua vita. Forse esisteva anche un piano». La documentazione mette in luce un altro sentimento condiviso dai partiti comunisti di Roma e di Tirana, ed è la diffidenza verso Mosca. «Fra le righe - racconta Sinani - si coglie un certo nervosismo per l' arroganza dei sovietici che vorrebbero prendersi tutto, portare ogni cosa a Mosca. E non è escluso che si decise di nascondere il mitra in Albania fu anche per evitare che cadesse nelle mani dei sovietici». Audisio muore nel 1973. Il segreto da lui chiesto viene mantenuto. Finché nel 1980 gli albanesi pensano che non ci sia più ragione di tenere quell' arma nascosta. Nel Museo storico è allestito un salone dedicato alla guerra antifascista. Si decide di metterci in mostra anche il mitra. Accanto, un cartello informa: «Con quest' arma il 28 aprile 1945 un' unità dei partigiani italiani fucilò il capo del fascismo Benito Mussolini». Nessuno sembra accorgersene. Alla caduta del comunismo, il salone dedicato alla lotta antifascista viene rapidamente smantellato. Il mitra con tutti gli altri reperti storici viene gettato negli scantinati. Dove è stato ora ripescato. Verrà esposto di nuovo nel Museo di Tirana. Ma il premier albanese Fatos Nano adombra l' ipotesi di restituirlo all' Italia per un breve periodo, in occasione della festa della Liberazione. Naturalmente non tutti i dubbi e i misteri riguardo alla fine di Mussolini sono dissipati. Di certo il mitra conservato a Tirana è quello che Audisio indica come l' arma usata per sparare al Duce. In due occasioni il «colonnello Valerio» ribadì la descrizione: un mitra di fabbricazione francese, modello Mas del 1938, calibro 7,65L-F.20830. I dati corrispondono in pieno. L' arma è quella. Ora si può obiettare: perché credere ad Audisio che proprio con questo mitra fu soppresso il Duce? La sicurezza matematica non c' è. Però, se Audisio si preoccupa di metterlo al sicuro vuol dire che gli attribuisce un valore. Altrimenti perché mandarlo in Albania? E perché ingannare i comunisti di Tirana facendogli credere che gli consegna un «dono» speciale? Rimane invece il dubbio su chi puntò veramente quest' arma contro Mussolini. Audisio stesso, come lui ha sempre sostenuto, oppure un altro capo partigiano che poi affidò la custodia del mitra ad Audisio? Una storia misteriosa che eccita la fantasia. Tanto che ieri un albanese di nome Ilir Qesja è saltato fuori giurando che il mitra fu portato a Tirana da suo padre partigiano. Vorrebbe addirittura far credere che il padre partecipò all' uccisione del Duce. Marco Nese 28 APRILE 1945 L' uccisione del Duce Benito Mussolini (qui in una delle ultime foto prima della fuga da Milano) fu arrestato e fucilato a Dongo (Como) il 28 aprile ' 45 con Claretta Petacci. I loro corpi furono esposti in piazzale Loreto
Nese Marco
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Pagina 18
(5 agosto 2004) - Corriere della Sera
"Il mitra che uccise il Duce e Claretta"
Dopo quasi nove anni, è tornato a Montefiorino, sull’Appennino, il mitra ‘Erma’ che un partigiano aveva indicato come l’arma che uccise Benito Mussolini e Claretta Petacci nel '45
Modena, 2 agosto 2007 –
LA SUA STORIA è non meno misteriosa di quella che potrebbero avere scritto i suoi proiettili. Dopo quasi nove anni, ha fatto ritorno ieri a Montefiorino, sull’Appennino, il mitra ‘Erma’ che un partigiano aveva indicato come l’arma che uccise Benito Mussolini e Claretta Petacci il 28 aprile 1945. L’ha ricevuto dalle mani degli uomini della questura di Modena Claudio Silingardi, direttore del Museo della Repubblica Partigiana di Montefiorino e dell’Istituto Storico di Modena.
NEL 1998, filtrò alla questura la voce che un partigiano della montagna conosceva dettagliatamente la storia dell’arma e il suo utilizzo nella fucilazione del Duce e della Petacci. Subito era scattata la ricerca del mitra da parte della polizia: fu effettivamente trovato, con tanto di munizioni, nell’altana vicino alla Chiesa del Calvario il località Lago di Montefiorino. L’arma fu poi confiscata nel marzo del 1999 su decisione del gip del Tribunale di Modena e inviata al ministero della Difesa. Un paio di mesi prima il museo di Montefiorino aveva già presentato istanza per la sua donazione.
COSA SIA AVVENUTO dell’‘Erma’ in questi otto anni è argomento di ulteriore mistero. La questura fa sapere che solo «dopo un lungo iter burocratico che ha interessato organi istituzionali» l’arma è stata ceduta al Museo della Republica di Montefiorino. Si può immaginare che sia stata oggetto di approfonditi studi per verificare se davvero abbia contribuito all’uccisione del Duce. Nel frattempo, però, il mitra è stato anche disattivato, quindi reso inoperoso, per poter essere esposto nel museo.
«ORA SPETTERÀ a noi avviare tutte le ricerche possibili per risalire all’origine dell’arma, perfettamente conservata — dice il direttore del museo, Silingardi —. Data la rilevanza degli avvenimenti di cui è stato indicato essere strumento decisivo, procederemo con tutta la cautela del caso in questo senso. Convocheremo per le verifiche tutti gli studiosi di cui avremo necessità. Di certo l’arma trovata nel 1998 era inceppata, così come si narra che fosse un mitra usato per uccidere Mussolini».
«ALLO STATO ATTUALE degli accertamenti storici — prosegue Silingardi — l’arma rappresenta un oggetto di sicuro interesse e di arricchimento del nostro museo, ma nulla di più. Teniamo conto che chi ne conosceva l’origine è una persona scomparsa poco dopo la scoperta dell’‘Erma’. Se effettivamente il mitra si rivelasse quello o uno di quelli utilizzati per uccidere Mussolini e la Petacci, non avrebbe senso che rimanesse a Montefiorino. Potrebbe invece essere custodito per coerenza storica e territoriale al Museo della Liberazione di Como, nel territorio che fu teatro della fine del Duce».
di Paolo Grilli

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La volontà dei comunisti di depistare e di mistificare gli avvenimenti realmente
accaduti si è estrinsecata a 360 gradi. Basta ricordare un fatto. Il mitra MAS francese calibro 7,65 (modello 1938, matricola n° 20830) usato (si dice) dai partigiani per uccidere Mussolini e la sua cortigiana preferita è stato trafugato di nascosto in Albania alla fine di novembre del 1957 (AA. VV. L) ultimo schiaffo alla Patria. Il mitra che avrebbe ucciso il Duce esposto a Tirana. www.politicaonline.net. Reperibile per via telematica). Non una parola è stata detta dalla nomenklatura marxista di casa nostra quando è comparsa la notizia che la Questura di Modena ha donato alla Repubblica partigiana di Montefiorino il mitra ERMA calibro 9;con
il quale vennero fucilati Benito Mussolini e Claretta Petacci; (AA. VV. Al museo partigiano di Montefiorino il mitra che uccise Mussolini. www.sassuolo2000.it. Reperibile per via telematica). Il silenzio totale è seguito alla imprudente dichiarazione di Michele Moretti:;Il mitra che ha ucciso Mussolini è nel solaio di casa mia; (G. Cavalleri. Ombre sul lago. Piemme, 1995) come pure a quella del generale Ambrogio Viviani: “Il
mitra cal. 7,65 mod. 38 matricola 20830 è conservato al museo del KGB in Mosca dove i comunisti italiani ritennero doveroso inviarlo e dove il sottoscritto ha avuto la possibilità di vederlo e di sentirne la storia; (A. Viviani. op. cit.). Non fa quindi meraviglia se un Dongologo famoso, Franco Bandini, parla di un mitra cecoslovacco calibro 9 (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978) e se il comandate partigiano dell;Oltrepò pavese, professor Paolo Murialdi (già redattore de Il Giorno), asserisce che non è la pistola Beretta calibro 9 (modello 1934, matricola n° 778133), conservata nel Museo Storico di Voghera, quella con cui è stato dato il colpo di grazia a Mussolini (O. Ciai, P. Coppola. Il mitra che uccise Mussolini dal partigiano Valerio a Tirana. www.repubblica.it. Reperibile per via telematica).
Silvio Bertoldi
Lo rivela rapporto segreto del Cln. Moretti il "giustiziere" di Mussolini? Il documento datato 1945 era indirizzato alla federazione milanese del Pci. Il ruolo dei partigiani dell'Oltrepo nel mistero di Dongo
Pavia.- Porta fino a Mosca, cuore dell'ex Unione Sovietica e dei suoi segreti, l'ultima verità sull'uccisione di Benito Mussolini, un giallo che da più di mezzo secolo appassiona gli storici. A proporre la pista russa è un documento, risalente al 1945 e vergato su carta intestata al Cln (Comitato di Liberazione nazionale) di Como, nel quale si sostiene che a giustiziare il Duce era stato Michele Moretti, commissario politico della 52ª brigata garibaldina "Clerici". Moretti, sempre secondo il rapporto del Cln, indirizzato alla Federazione comunista milanese, si sarebbe servito di un mitra, poi consegnato a un emissario dei servizi segreti del Cremlino o dell'Armata Rossa.
L'originale di questo documento inedito sarebbe andato smarrito, ma esisterebbe ancora una copia conservata da un privato. E sulle tracce dell'arma utilizzata per l'esecuzione di Mussolini e della sua amante Claretta Petacci - arma destinata ad essere custodita in un meglio specificato museo di oltrecortina - sarebbero già alcuni storici italiani, interessati a mettere le mani su di essa e a fare piena luce su una vicenda ancora intrisa di misteri.
Il condizionale è, comunque, d'obbligo, poiché attorno alla fine del dittatore fascista e dei gerarchi di Salò sul lungolago di Dongo, il 28 aprile 1945, si è scritto e si è detto un po' di tutto, fino a rendere assai difficile l'accertamento della verità. Un compito ostacolato anche dal fatto che i partigiani coinvolti in quelle vicende hanno sempre osservato, salvo qualche rara eccezione, la consegna del silenzio imposta a guerra finita da Luigi Longo, il dirigente del Pci che avrebbe raccolto negli anni Sessanta l'eredità di Togliatti alle redini del partito. Il discorso vale per lo stesso Moretti, deceduto nel '95, e per i dodici partigiani dell'Oltrepo pavese, per lo più appartenenti alla brigata "Crespi", che formarono la scorta del colonnello Valerio (nome di battaglia dell'alessandrino Walter Audisio), il leader garibaldino a cui il Cln aveva ordinato di catturare e giustiziare il Duce. Una delle eccezioni riguarda la figura di Giovanni Orfeo Landini, il comandante "Piero" della Resistenza di parte comunista in valle Staffora, un "duro e puro" la cui confessione-testimonianza ha proposto, due anni fa, l'ennesima versione sulla morte di Mussolini e della Petacci. Non fu Valerio a sparare al Duce, sul muro di cinta di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra - ha rivelato "Piero", scomparso un anno fa - ma un plotone di esecuzione formato da tre uomini: lo stesso Landini, Moretti e Alfredo Mordini ("Riccardo"), ispettore delle formazioni garibaldine dell'Oltrepo. Il racconto di Landini è al centro del libro dello storico vogherese, Fabrizio Bernini, Così uccidemmo il Duce, che svela anche i nomi dei partigiani dell'Oltrepo che scortarono Valerio e che formarono il plotone di esecuzione dei gerarchi. L'Oltrepo fa capolino anche per il giallo della pistola Beretta conservata al museo storico di Voghera: nel regalarla al varzese Piero Boveri, Mordini avrebbe rivelato che fu con essa che venne inflitto il colpo di grazia al Duce morente.
L'excursus serve a chiarire quanto sia intricato il giallo attorno alle ultime ore di Mussolini. Potrà fare chiarezza almeno la "pista russa"? E' ancora presto per dirlo
Certo è che Moretti fu uno dei principali protagonisti di quei giorni convulsi a Dongo. Era il numero due del reparto (guidato dal conte Pier Bellini delle Stelle) che catturò il Duce e i gerarchi rimastigli fedeli, in fuga verso la Germania. Come "garante" del partito comunista all'interno della 52ª brigata, era sicuramente informato sulla natura della missione affidata a Valerio e sull'ordine del Cln di farla finita con il Duce e gli ultimi pretoriani di Salò. Un altro fatto assodato è che Moretti seguì Valerio fino a Giulino, dove, presso i coniugi De Maria, erano tenuti prigionieri Mussolini e la Petacci. Testimone, quindi, dell'atto conclusivo della tragedia. E forse direttamente partecipe di essa. Infine c'è il particolare dell'arma passata ai sovietici, di cui il documento del Cln comasco fornisce persino il numero di matricola: non si dimentichi che nella versione "ufficiale", accreditata dal Pci, Valerio sparò con un mitra, passatogli da Aldo Lampredi (altro dirigente di spicco del partito comunista) o proprio da Moretti, dopo che il suo si era inceppato.
E ora non resta da augurarsi che da Mosca arrivi finalmente una parola chiarificatrice, visto che dopo il crollo del Muro anche i più impenetrabili archivi sovietici hanno aperto le loro porte ai ricercatori occidentali.
di Roberto Lodigiani
da La Provincia Pavese del 5 novembre 2000
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A Mussolini spararono in due
il Tirreno — 08 aprile 2009 pagina 06 sezione: ATTUALITÀ
ROMA. Spararono in due, quasi in contemporanea. Walter Audisio, alias il colonnello «Valerio», l’inviato del Pci incaricato di portare a termine l’esecuzione di Benito Mussolini, e il partigiano Michele Moretti, alias «Pietro Gatti». Il primo colpisce Mussolini con una pistola. Due colpi alla schiena, mentre il duce si stava girando dopo una sorta di ordine, e il secondo un attimo dopo spara quattro colpi di mitra al petto. La sentenza di morte è immediata, senza melodrammi, come aveva suggerito Luigi Longo. Ma non è vero, come sostenuto per decenni dal Pci, che a sparare su ordine del Comitato di liberazione nazionale sia stato solo Audisio. E’ questa la rilevante novità, supportata da una documentazione americana uscita nel 2004 dai National Archives di College Park, nel Maryland, del libro in uscita da Garzanti “La Fine”. Gli ultimi giorni di Mussolini sono raccontati nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946) che ricollocano i molti frammenti scomposti di una vicenda tra le più «guerreggiate» da storici e giornalisti. Ci sono infatti almeno 22 versioni della morte di Mussolini: dal suicidio, alla doppia esecuzione, alla uccisione da parte di agenti inglesi che avrebbero scambiato quella morte con la documentazione del favoloso carteggio Churchill-Mussolini e lasciando in cambio al Pci l’oro in mano al duce e ai suoi gerarchi. Quella di Mussolini è una storia infinita che trova ora il punto fermo della versione americana. Gli Usa seppero ma non rivelarono mai che la versione del Pci era contraffatta per ragioni politiche. Il libro, scritto dallo studioso che per primo aveva ventilato questa ipotesi, Giorgio Cavalleri, da Franco Giannantoni, storico della Resistenza, e da Mario J. Cereghino (che ha ritrovato materialmente le carte) è una dettagliata ricostruzione che sgombra il campo da una cascata di illazioni, ipotesi e fantasiose ricostruzioni. Il volume ruota attorno al memorandum segreto di Valerian Lada-Mocarski (l’agente 441 dell’Oss, il servizio segreto militare Usa) del 30 maggio del 1945. Il rapporto è il frutto della indagine condotta sul campo dall’Oss per chiarire come mai gli Usa non riuscirono ad «intercettare», nonostante i grandi sforzi, Mussolini per sottoporlo ad un regolare processo. L’esecuzione a Giulino di Mezzegra è ricostruita in dettaglio sulla base delle dirette conferme avute dall’agente Usa da qualcuno che, probabilmente, vi partecipò o assistette. Mussolini e la Petacci furono fatti scendere dall’auto. Al duce fu quindi ordinato di spostarsi di qualche passo verso il muro, a nord del cancello. Quasi contemporaneamente partirono gli spari dal revolver del civile (Audisio) e dal mitra del partigiano (Moretti). I colpi di Audisio «sembravano essere stati esplosi una frazione di secondo prima di quelli sparati dal mitra del partigiano. Le pallottole (del revolver) raggiunsero obliquamente il duce, sulla schiena», mentre i tre proiettili sparati dal mitra lo colpirono direttamente al petto.


La fucilazione di Benito Mussolini


Michele Moretti, il partigiano comunista "Pietro Gatti" (1908-1995)
commissario politico della 52a Brigata Garibaldi "Luigi Clerici"

Vedi anche Dichiarazione del CLNAI sulla fucilazione di Mussolini e dei suoi complici

Dal libro del giornalista varesino e storico dell'antifascismo Franco Giannantoni "Gianna" e "Neri": vita e morte di due partigiani comunisti Storia di un "tradimento" tra la fucilazione di Mussolini e l'oro di Dongo


Mussolini e la Petacci cadranno a Giulino di Mezzegra per mano di Michele Moretti "Pietro Gatti"
e NON del "colonnello Valerio" [Walter Audisio, partigiano comunista, esponente della segreteria del Comando generale del CVL, Corpo Volontari della Libertà].

L'ordine di morte era stato intimato da "Valerio". Improvviso, secco come una frustata, per i due prigionieri certamente inatteso. "Al muro!", aveva urlato il responsabile della missione. Mussolini e la Petacci avevano allora compiuto qualche passo all'indietro, rivolgendo sempre il loro sguardo a "Valerio". Una manciata di secondi ancora e poi questi, imbracciato il mitra americano, aveva premuto il grilletto ma la raffica non era partita. L'arma si era inceppata con un rumore sordo. (...) L'uomo designato per l'atto estremo contro il duce del fascismo e la sua compagna,
il grigio ragioniere piemontese, si era mostrato alla prova dei fatti impreparato, impacciato. (...) "Pietro, Pietro, Pietro..." era stato il grido di "Valerio" e di "Guido" preoccupati di vedersi sfuggire di mano una situazione che si era fatta drammatica. "Guido" [Aldo Lampredi, partigiano comunista, collaboratore di "Gallo" Luigi Longo al Comando generale del CLNAI-CVL di Milano], sino a quel momento era apparso freddo, distaccato, quasi assente davanti ad un evento che sembrava non lo riguardasse. "Pietro", lontano una ventina di metri, aveva intuito cosa stava succedendo. Non aveva sentito la raffica del mitra, si era insospettito, più volte aveva lanciato lo sguardo in direzione della villa (villino Belmonte) cogliendo il maldestro movimento di "Valerio".
La designazione di "Pietro" da parte di "Francesco" [Pietro Terzi, ispettore della Delegazione Lombardia Brigate d'Assalto Garibaldi, Comandante della 52a Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", responsabile militare del triangolo Como-Erba-Lecco, Commissario di Guerra della Piazza di Dongo] per quella fase operativa si stava dimostrando determinante.
L'uomo era spigoloso, chiuso, ma audace, sempre disponibile. Quando si era trovato a pochi passi da Mussolini e dalla Petacci aveva fatto fuoco in corsa, senza attendere ordini, certo di non sbagliare.
Dal "Mas" 7,65 [mitra francese Mas calibro 7,65 modello '38 matricola 20.830] era partita una sventagliata da destra a sinistra che aveva falciato entrambi i prigionieri con una traiettoria dal basso verso l'alto per il dislivello delle posizioni. (...) Erano le 16.10 del 28 aprile 1945.

Appunti di "Riccardo" Oreste Gementi, comandante della Piazza di Como del CVL:
«Infatti, "Sandrino" [Guglielmo Cantoni, partigiano della 52a Brigata Garibaldi "Luigi Clerici"] e "Lino" [Siro Rosi, commissario politico della 90a Brigata Garibaldi "Elio Zampiero"] che furono i custodi della coppia tra il 27 e 28 aprile, presenti all'esecuzione, venuti al Comando il I° maggio, mi precisarono che dopo la dichiarazione di "Valerio"
"In nome del popolo italiano ecc." il mitra di "Valerio" si inceppò e "Pietro" (Michele Moretti) che si trovava al suo fianco col mitra spianato, fece partire la scarica mortale.»
E’ stato il pluriomicida Giuseppe Frangi (Lino) ad uccidere Mussolini?
24.05.09 - Nel mio libro intitolato: “La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere” (PDC Editori, Ascoli Piceno, 2008) ho prospettato l’ipotesi che Benito Mussolini, agonizzante perché aveva tentato di suicidarsi infrangendo tra i denti una capsula di cianuro, è stato ucciso da Giuseppe Frangi, nome di battaglia Lino. Costui era uno dei due carcerieri che sorvegliavano il Duce e Claretta Petacci custoditi, la notte del 28 aprile del 1945, in casa dei contadini Giacomo e Lia De Maria abitanti a Bonzanigo, un paese sito nel comune di Tremezzo che dista circa 25 km. da Dongo.
Sul libro ho scritto: <<lino, dopo il 28 aprile, ha compiuto una serie di delitti che hanno dell’incredibile. Ha detto Michele Moretti (commissario politico della 52° brigata Garibaldi, quella che ha fermato la colonna Mussolini diretta in Valtellina e che, il 27 aprile alle tre del pomeriggio, ha operato l’arresto del Duce a Dongo): “Lino non era più in se. Perché un conto è giustiziare dei criminali di guerra, un conto è seviziarli come si era messo a fare lui (si riferisce ai fascisti reclusi, dopo il 28 aprile, nella caserma dei Carabinieri di Dongo). Per Raffaello Uboldi (un giornalista-scrittore): “Lino era un duro che non fa prigionieri, li sgozza e li butta nel lago”. Ha scritto Mario Baudino: “Un partigiano di nome Lino presenziava agli interrogatori cui venivano sottoposte le detenute, senza dire una parola, ma ogni notte prelevava qualcuno, lo portava fuori e lo ammazzava”. Così si è espresso Florido Borzicchi: “Lino, ricorda uno dei fascisti della colonna Mussolini, il lucchese Mario degli Innocenti, mi apparve all’improvviso nella caserma dei Carabinieri dove mi avevano rinchiuso con la figlia naturale del Duce, Elena Curti. Era notte fonda, alla luce di una candela lesse alcuni nomi, gli appellati lo seguirono piangendo e gridando. Tra di essi c’era anche il federale di Dongo, Buttera. Tutti furono trascinati via ed ammazzati. Anche il Buttera fu trovato in fondo al lago. I venti e più fascisti furono assassinati con un colpo alla nuca e squartati perché il loro corpi non salissero a galla. Lino morì il 5 maggio (1945) a guerra ormai finita. Fu rinvenuto cadavere sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo. Le circostanze della morte non furono mai chiarite ed il suo caso fu archiviato in fretta. Si disse fosse stato dilaniato dal fortuito scoppio del fucile che portava a tracolla, ma c’è chi mormora che fu ucciso dai suoi compagni per averla fatta grossa. Di certo, a Dongo, e dintorni, quando si pronuncia il nome dell’ex guardiano del Duce a Bonzanigo, nessuno parla volentieri. Basta però accennare al Diavolo rosso, così lo avevano soprannominato, perché tutti facciano un gesto di raccapriccio”>>.
<<a Pietro Carradori, l’attendente di Mussolini prigioniero anche lui a Dongo, Lino si è rivolto affermando: “Con questo mitra ho ucciso il boia e la sua amante. Cinque colpi a lui e tre a lei”. Continua il Carradori commentando: “Il Diavolo rosso aveva il mitra stretto in mano e brandito verso l’alto, sul volto più che un sorriso un ghigno. Lo osservai con curiosità mista a sgomento e fin da quel primo momento non ebbi dubbi: da come aveva pronunciato quelle parole, dal lampo sinistro che aveva nello sguardo, mi resi conto che non mentiva. Forse con lui anche altri avevano sparato, forse non si era nemmeno reso conto da chi e per quali ragioni gli era stato ordinato, o consentito, di sparare. Sta di fatto che l’esecutore materiale del duplice delitto era sicuramente lui, il Diavolo rosso”. Da notare un fatto: il Carradori non sapeva che il Duce, prima di essere fucilato, aveva tentato di suicidarsi>>.
<<sentiamo ancora cosa ci dice il Borzicchi: “C’è quasi da pensare che a stringere quel mitra che sigillò il ventennio fascista furono altri che Valerio (W. Audisio, ndr) e Moretti (il partigiano Pietro, ndr), forse uno dei due guardiani del Duce a Bonzanigo, Giuseppe Frangi, detto Lino di Villaguardia di Como. Se andò effettivamente così, l’alterazione dei fatti compiuta sarebbe comprensibile. Lino come vendicatore di soprusi recenti, angelo sterminatore della ventennale tragedia non reggeva la parte. Di lì a poco, infatti, si macchierà di tali delitti che avrebbero gettato una luce sinistra sulla nuova alba che si levava. Se fu Lino a sparare su Benito e Claretta, si spiega dunque il mistero che ancora circonda quell’episodio di vita italiana. L’esecutore del Duce, negli anni della guerra civile, non doveva essere un impresentabile”. Nonostante fosse un malvagio, Lino, morto a 34 anni, è stato seppellito davanti a tutta la nomenklatura del PCI. A Giuseppe Frangi, patriota, è stata intestata una strada a Villaguardia, il suo paese natio. Luigi Conti, il sindaco comunista di Dongo eletto dopo la liberazione, ricorda che “la bara del Frangi fu portata in Municipio ed esposta alla folla nella Sala d’Oro. Nessun altro ebbe un trattamento così”>>.
Il Signor Giuseppe Turconi, ormai ultraottantenne, abitante a Villaguardia di Como, il paese natio del Frangi (da giovanissimo lo chiamavano Dillinger per quanto era riottoso), mi ha inviato i seguenti documenti:
Documento 1: “DICHIARAZIONE: Il sottoscritto ARRIGONI Martino di Giovanni ‘Mario Maria’ da Dongo, già intendente della formazione Gramsci della 52° Brigata Garibaldi con sede Monti di Garzeno, dichiara quanto segue: Durante le giornate insurrezionali tutti i partigiani della formazione Gramsci scesero dai monti portandosi a Dongo dove operarono il fermo dell’autocolonna del Duce, Ministri ed ex gerarchi del fascismo repubblicano. Fra i partigiani della suddetta formazione vi era certo FRANGI Giuseppe ‘Lino’ di Villaguardia di Como che portò la sua opera fattiva e redditizia nella cattura dei personaggi di cui sopra. Il Frangi continuò a prestare servizio presso il Distaccamento di Dongo, eseguendo instancabilmente arresti, perquisizioni ecc. su elementi dell’ex partito repubblicano fascista. Il 5 maggio del 1945 verso le ore 1,30, il sottoscritto, in unione al predetto partigiano Frangi, regolarmente comandati in servizio lungo la riva del lago Dongo-Gravedona per la ricerca di persone sospette che tentavano di portarsi sulla riva opposta per sottrarsi alla cattura, mentre eravamo in appostamento nei pressi della località Vigna di Dongo, al Frangi (che aveva il mitra fra le braccia) gli partì inavvertitamente un colpo che lo ferì mortalmente in faccia. Trasportato immediatamente al Comando del Distaccamento, durante il tragitto spirò. Tanto per la verità mi sottoscrivo. Dongo li 1° febbraio 1946. Firmato: Arrigoni Martino. COMITATO DI LIBERAZIONE MANDAMENTALE DI DONGO. Visto: Si accerta che il firmatario della presente è il Sig. ARRIGONI Martino di Giovanni della classe 1905, da Dongo, già Intendente della formazione Gramsci della 52° Brigata Garibaldi il quale prestò servizio durante e dopo i moti insurrezionali presso il Distaccamento di Dongo. Dongo li 2 febbraio 1946. COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE. Il Presidente: Torri Vincenzo”.
Documento 2: “Porlezza 10/8/1945. PORLEZZA. (Oggetto): Certificato di morte. Io, Tenente ARNO BOSISIO, ex comandante del presidio di Dongo, dichiaro che: l’ex partigiano FRANGI GIUSEPPE (nome di battaglia Lino) di Giovanni e fu Corti Carolina, nato a Gironico il 7/8/1911, sceso dal Distaccamento il 26/4/1945, partecipò alla cattura dell’ex duce, pure partecipò all’esecuzione dei 16 ministri, in seguito ad un incidente dell’arma propria, decedette. IL COMANDANTE IL PLOTONE. Firmato: TEN. ARNO BOSISIO. Si conferma: C.V.L ZONA LAGO DI COMO. Il Comandante la sottozona di Como: Gementi Oreste, Riccardo. COMANDO DI POLIZIA, 2° PLOTONE. PORLEZZA”.
Il signor G. Turconi, il cui zio era amico del gross bonnet comunista Oreste Gementi, alias Riccardo (comandante della Piazza di Como del CVL), mi ha notificato quanto segue: “Il Gementi, terminate le esequie funebri in onore del Frangi, si è rivolto a mio zio dicendogli: ‘Lino è stato ucciso da mani fratricide’. Ha poi aggiunto: ‘Chi lo ha trovato morto ha detto che aveva un tappo in bocca’”. A buon intenditor poche parole. Sul libro di Urbano Lazzaro, il partigiano Bill, colui che ha affermato di aver arrestato Mussolini a Dongo alle 15 del 27 aprile del 1945 (Dongo. Mezzo secolo di vergogne. Mondadori, 1997), si legge: <<il Lazzaro sostiene di aver chiesto, ai primi di maggio del 1945, a Lino, Giuseppe Frangi, se era vero quanto riportava l’Unità del 30 aprile (la “vulgata” del comunista Walter Audisio, il colonnello Valerio, ndr), ed ebbe dal Lino una eloquente risposta: “L’avevo già letto. Tutte balle! Te lo dirò io quello che è successo veramente a Bonzanigo (il grassetto è mio). Adesso non posso. Rivediamoci. Ti potrai poi far confermare tutto dal capitano Neri (Luigi Canali, ndr) che assieme alla partigiana Gianna (Giuseppina Tuissi, ndr) ti stimano moltissimo”. Ma il Frangi, come noto, pochi giorni dopo fu ritrovato morto sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo>>.

(segue)





















2a parte:

mercoledì 7 maggio 2008
Morte Mussolini - I reperti: le armi e il vestiario
Dopo aver affrontato l’argomento della morte di Mussolini in un quadro, per così dire, di ordine generale (vedere le precedenti puntate: «La grande bufala una e trina» del 17 aprile 2008 e «Fine di una montatura» del 21 aprile), è anche il caso che si affrontino alcuni argomenti di carattere specifico o particolare.
Per arrivare ad acquisire gli elementi necessari che possono mettere la parola fine alla vulgata storica costituita dalla versione ufficiale resa (o meglio, ufficialmente, mai resa!) per la morte di Mussolini, è infatti anche necessario fare una disamina ed uno studio dei pochi reperti disponibili e correlati a quella morte.
E’, in ogni caso, fuori di dubbio che la demolizione della versione ufficiale sia dovuta principalmente allo studio ed alla critica, messa in relazione al verbale autoptico del professor Cattabeni, effettuata sui sia pur pochi ed incompleti reperti disponibili, oltretutto per lo più e per così dire virtuali, perchè le armi, quasi tutto il vestiario, ecc. sono spariti, e quindi occorre arrangiarsi con i soli rilievi cine-fotografici inerenti alle macabre esposizioni di piazzale Loreto e dell’obitorio.
Di Claretta Petacci poi, non essendoci referto autoptico, ma solo foto della salma, è estremamente difficile stabilire - con buona certezza - le modalità del suo assassinio e tutti gli elementi a questo evento correlati.

In ogni caso tutte le ipotesi alternative che si basano prevalentemente su deduzioni logiche, testimonianze più o meno riscontrabili e contraddizioni varie hanno una certa importanza, ma da sole non sono assolutamente sufficienti a demolire definitivamente la versione di Valerio e le sue moderne varianti revisionate, se non vengono supportate dai possibili studi e rilievi, sia sulle foto dei cadaveri che su quei pochi reperti in qualche modo osservabili.
Andiamo quindi per ordine e accingiamoci a leggere, sia pur con tutte le limitazioni appena accennate, quanto è ancora possibile esaminare o dedurre da alcuni reperti, o presunti tali, come foto, armi e vestiario.
Emergeranno così modalità e dinamiche di una morte, anzi di due morti distinte e distanziate, che risulteranno diametralmente opposte a quelle attestate dalla versione ufficiale.

Dovremo ancora una volta, purtroppo, prendere in considerazione e trattare argomenti squallidi o macabri e particolari di carattere tanatologico riferiti ai resti di una povera donna e di un uomo che aveva speso tutta la sua vita al servizio dell’Italia.
Ma è necessario farlo perchè solo in questo modo è possibile demolire la menzogna che, iniziata il 30 aprile del 1945 sulle pagine dell’Unità e supportata dall’avallo interessato dei vincitori della guerra, aveva finito per diventare un luogo comune impresso nella diceria popolare.
Essa faceva il paio con l’altra favoletta, quella che raccontava delle ultime ore di un Mussolini meditabondo in procinto di fuggire in Svizzera, quando proprio il fermo proposito di Mussolini di restare, fino all’ultimo sul suolo italiano gli costò la vita.
Quest’ultima diceria, grazie a Dio, è da qualche anno definitivamente tramontata, ovvero da quando una documentatissima ricerca storica di Marinò Viganò: «Mussolini, i gerarchi e la ‘fuga’ in Svizzera 1944-‘45» (con l’articolo in appendice: «Quell’aereo per la Spagna») pubblicata in «Nuova Storia Contemporanea» numero 3-2001 integralmente visibile anche nel sito: www.italia-rsi.org/miscellanea/nuovastoriacontemporaneafugacosiddetta.htm], ha definitivamente spazzato via ogni dubbio in proposito.

Una accurata inchiesta quella dello storico varesino che risulta tanto più importante ed assume una certa valenza, in quanto trattasi del lavoro di un bravo ricercatore che certamente non può definirsi di parte neofascista, anzi è sicuramente molto più vicino alla letteratura resistenziale.
Per tornare alla cosiddetta versione ufficiale che vorrebbe attestare una ignominiosa morte del Duce di fronte al mitra di Walter Audisio è invece necessario impegnarsi ancora in una sua demolizione sistematica, punto per punto, perchè oltre alle tante bugie insite nella versione stessa si è anche prodotta tutta una serie di ipotesi alternative che non stanno assolutamente in piedi e che hanno finito per aumentare la confusione.


Colpi e fori premortali su Mussolini
Disegni, frontale e di schiena, con i fori determinati dai colpi che hanno colpito il Duce ancora in vita (premortali).

Questi disegni riportano, sia pure approssimativamente, la geografia dei fori d’arma da fuoco riscontrabili sul cadavere del Duce e causati esclusivamente da colpi che lo hanno colpito da vivo.
Essi sono deducibili dal referto autoptico del professor Cattabeni e dai possibili riscontri cine-fotografici.
Alcuni di questi colpi sono stati sparati da distanze ravvicinatissime ed alcuni hanno diverse traiettorie: inclinate, oblique e dall’alto in basso che certamente non attestano una fucilazione classica di un condannato fermo in piedi per essere esecutato da qualche metro di distanza.
Il colpo sopraioideo (5), non presenta il rispettivo foro di uscita; pur rimanendo una certa incertezza, questo foro d’uscita infatti non è citato nel referto autoptico del 30 aprile 1945 e neppure si riscontra dalle poche foto della nuca (dove risulta invece un foro postmortale) è quindi possibile supporre una ritenzione del proiettile.

Fori in entrata:
1. colpo pre-mortale ravvicinato sull’avambraccio destro;
2. colpo al di sopra della spina iliaca, verso il basso, uscito dal gluteo destro senza ledere
l'impalcatura ossea del bacino;
3. colpo in parasternale destra (lesione aortica, forse situato più in alto);
4. colpo sopraclavicolare destro senza ledere la clavicola sottostante;
5. colpo sottomentoniero sul piano detto sopra-joideo (pallottola probabilmente ritenuta);
6. 7. 8. 9. gruppo di quattro fori concentrati (quasi un quattro di quadri in orizzontale);

Fori in uscita:
A. uscita di 1 (nel disegno è posto nel retro del braccio, ma questo colpo è quasi in linea su di un piano tangenziale rispetto a quello di entrata);
B. uscita di 2 con una certa traiettoria dall’alto (entrata) in basso (uscita);
C. sono fori di uscita di 3. e 4.;
D. sono i fori di uscita di 6. 7. 8. e 9.

Ricapitolando

Colpi e fori premortali:
Per ricapitolare possiamo dire che, nella parte alta del tronco, siamo in presenza di 7 colpi di entrata e 6 fori di uscita, non essendoci certezza di foro d’uscita per quello sotto il mento.
Inoltre c’è 1 foro di entrata e 1 di uscita nel braccio destro, ed 1 foro di entrata e 1 di uscita fianco/gluteo.
Totale 17 fori entrata / uscita.
I colpi attinti quindi dovrebbero essere 8 (otto) se quello al braccio è poi penetrato nel tronco oppure al fianco (qualcuno ipotizza anche una dinamica rovesciata ovvero dal fianco al braccio (legato dietro) via alto gluteo.
Viceversa i colpi attinti potrebbero essere 9 (nove) se il foro al braccio non è poi penetrato nel tronco e neppure nel fianco.

Attenzione: recenti rilievi, eseguiti con macchinari altamente specializzati e computerizzati hanno individuato altri due colpi, probabilmente premortali all’addome, a suo tempo non rilevati dal referto autoptico di Cattabeni.
In questo caso il totale dei colpi salirebbe a 10 (o 11), ma oltretutto si paleserebbe una grave mancanza per questa omessa segnalazione nel referto autoptico.
Se, infatti, fosse comprovato che questi 2 colpi sono premortali, come sembra e sarebbe logico che fosse, verrebbe ancor più sconvolto tutto il quadro della dinamica di quella morte così come conosciuto.

Colpi su Claretta Petacci

Di Claretta Petacci, non essendoci referto autoptico, dalle sole foto del cadavere si contano
sul petto, (con molta approssimazione) alcuni fori di cui presumibilmente 4 in uscita (forse quelli dell’uccisione), 4 in entrata e 8 incerti se definirli in entrata o in uscita.
Nella riesumazione del cadavere della donna, avvenuta nel 1956, venne trovato un proiettile calibro 9 forse di pistola (alcune fonti asseriscono che i proiettili furono due).
Questo proiettile calibro 9 poteva però anche essere stato attinto post mortem quando, vilmente, si sparò qualche colpo sui cadaveri o forse, non è da escludere, durante la finta fucilazione di villa Belmonte.

Le interpretazioni dei referti autoptici e i dati oggettivi

Si faccia attenzione al fatto che i verbali autoptici, per loro natura, costituiscono una materia complessa e adeguatamente interpretabile solo da chi ha sufficienti competenze mediche e magari anche cognizioni sulle problematiche fisico balistiche inerenti alle dinamiche e alle lesioni prodotte da armi da sparo.
In genere i comuni lettori non hanno queste conoscenze scientifiche, mentre invece alcuni autori di articoli o di libri sulla morte del Duce, per sostenere proprie interpretazioni o strane ipotesi riportano, a modo loro, una descrizione asettica o sintetica del verbale di Cattabeni.
La cosa, pur non costituendo un falso, può però confondere le idee.
In queste descrizioni, infatti, spesso non si è chiari nello specificare bene il fatto che sono presenti colpi o ferite pre-mortali letali, e anche non letali, ma comunque sempre inferti ad un soggetto in vita e che vanno quindi ben distinti dai colpi post-mortali.
Altre volte si parla invece solo di colpi letali, lasciando intendere, pur senza dirlo, che sono gli unici colpi che avrebbero attinto il Duce da vivo.
Ed ancora si fa anche confusione tra foro e colpo, visto che un singolo colpo potrebbe anche generare più di un foro.
E così via.
In particolare alcuni autori di parte resistenziale, nel tentativo di avallare la versione ufficiale, a volte liquidano la dinamica della morte di Mussolini con affermazioni di questo tipo:
«Mussolini fu quindi ucciso da sette colpi tutti mortali come infatti ha poi accertato l’autopsia eseguita dal professor Cattabeni», ecc. (a volte aggiungendo, oppure rendendola implicita, una conferma indiretta della versione di Valerio con la sua classica fucilazione da tre passi).

Per dei comuni lettori, digiuni di ulteriori conoscenze medico tanatologiche, questa può risultare una descrizione fuorviante.
In ogni caso, a chi legge un articolo o un libro, nella speranza di trovarvi elementi utili ad un accertamento delle modalità e delle cause di quella morte, per risalire poi al numero ed al volto degli eventuali esecutori, importa meno sapere che Mussolini mori per 7, per 5 o per un solo colpo, mentre più interessante è sapere quanti colpi raggiunsero il Duce in vita e dove lo colpirono e possibilmente con quali armi vennero sparati, quali traiettorie ebbero, se la morte fu istantanea, ecc.
Ma specificare questi altri elementi significa, già di per se stesso, porre un grosso punto interrogativo proprio sulla versione raccontata da Valerio o comunque arrampicarsi in successive spiegazioni che non spiegano niente.
Ecco allora il tagliar corto e il sintetizzare pur senza incorrere in falsi!
Bisogna però considerare che non ci sono precise indagini e rilievi autoptici, balistici ed osservazioni sugli indumenti e sul cadavere fatti all’atto dell’autopsia, tali da indicare con certezza calibro, traiettorie, esatta inclinazione, distanza di sparo, vestiario, ecc., ma più che altro studi e congetture fatte a posteriori sulle indicazioni del verbale autoptico e sulla osservazione dei cadaveri e del vestiario attraverso foto e filmati.
Ne consegue quindi che se non è possibile - e ripetiamo il non è possibile - dare certezze assolute, possono però avanzarsi ipotesi abbastanza reali e concrete.

Il colpo al braccio

Molti studi sull’autopsia di Cattabeni, ipotizzano che il colpo al braccio, premortale e non letale, con fori di entrata e di uscita, potrebbe poi essere penetrato nel torace (per un tentativo di schermo con la mano), oppure nel fianco (ipotizzando un momento di lotta).
Un alone di sparo sul braccio, poi, indica una distanza di sparo ravvicinatissima.
Un’altra interpretazione, dopo attento studio dell’autopsia, ha preso in considerazione il fatto che la balistica di questo colpo al braccio destro, possa essere al contrario: ovvero si ipotizza il fatto che il Duce avesse la mano destra legata dietro e quindi il colpo al fianco, fuoriuscito dal gluteo ha attinto ed è uscito anche dal braccio.
Il foro al braccio, ed uno di quelli al torace o al fianco, come detto, potrebbero quindi far parte di un solo colpo, riducendo il totale (nove) dei colpi premortali ad otto.
Il foro di uscita per il colpo sotto il mento.
Il colpo sotto al mento (sopraioideo), non presenta certezze per il foro di uscita alla nuca. Stranamente nel suo verbale il Cattabeni non menziona questo foro di uscita che infatti, non si evince neppure dalle foto della nuca del cadavere, mentre poi invece nel resoconto di agosto afferma «A tutti i fori d’entrata del tronco corrispondevano posteriormente fori di uscita» (forse dal tronco, in una esposizione non corretta, vi escludeva il collo?).

Traiettorie

Molto problematiche restano inoltre le traiettorie dei colpi sotto il mento ed al fianco, che risultano inclinate dal basso verso l’alto (quella sotto il mento), o viceversa dall’alto verso il basso (quella al fianco).
La prima inclinazione si tende a giustificarla con il fatto che il tratto di strada di fronte al cancello di Villa Belmonte era, al tempo, una 20 di cm. circa più basso del punto dove, addossati al muretto si trovavano il Duce e la Petacci; l’inclinazione opposta, dall’alto verso il basso, invece, per il colpo al fianco resta inspiegabile per la versione ufficiale.
Tutte le traiettorie degli 8 o 9 colpi, poi, hanno una distribuzione da un lato all’altro del corpo e vanno dal fianco (il colpo più basso) per arrivare fin sotto il mento (quello più alto): colpi e traiettorie quindi che mal si addicono alla versione ufficiale.
Comunque sia, in mancanza di riscontri precisi ed elementi certi, l’inclinazione di molti colpi e l’estrema ravvicinatezza di alcuni spari, ha fatto avanzare le più disparate ipotesi.
L’assenza di dati precisi, infatti, consente di teorizzare varie dinamiche di esecuzione, con modalità di sparo ravvicinate, cadute, torsioni e scarti improvvisi dei fucilati, e fasi concitate anche di lotta e sbilanciate per almeno due fucilatori, ecc.
Quindi ogni cautela è d’obbligo e seppur la versione ufficiale risulta effettivamente improponibile, per ogni altra ipotesi non ci sono certezze assolute.

Le armi

Ciò che è essenziale rilevare è il fatto che le armi impiegate in questa supposta fucilazione, se le cose fossero andate normalmente e come ci è stato raccontato, avrebbero dovuto, prima o poi, essere mostrate e consegnate alle autorità per una attestazione dell’avvenuta fucilazione e per un riscontro delle sue modalità.
Sono invece sparite ed al loro posto, come vedremo, si indicano reperti di problematica identificazione.
Prendendo, infatti, in esame le relazioni e le testimonianze su la pistola ed il mitra che la storica versione va sbandierando come le armi impiegate in quell’evento, ne risulta l’impossibilità di una conferma per quanto su di esse viene riferito.
A dimostrazione, una volta di più, che si era dovuta mettere in piedi tutta una sceneggiata per nascondere quanto effettivamente accadde quel 28 aprile: ogni spiegazione semplice e lineare divenne, infatti, col tempo praticamente impossibile.

La presunta pistola

Cominciamo con la pistola, un bel mistero non da poco.
L’esistenza di una pistola, estratta al momento della fucilazione del Duce (visto che il mitra Thompson di Valerio risultava inceppato) è citata dalla storica versione, la quale nelle sue plurime versioni, senza senso del ridicolo, la attribuisce prima a Valerio cioè Walter Audisio e poi definitivamente a Guido Aldo Lampredi.
Ma in ogni caso, stando a queste versioni, in entrambi i casi, si sarebbe inceppata e quindi non dovrebbe aver sparato.
Le moderne versioni revisionate rispetto alla vecchia relazione di Valerio, pur senza specificarlo esplicitamente, sono possibiliste sul fatto che, in un contesto alquanto caotico, possa aver sparato, oltre ad Audisio (o forse al suo posto) anche Moretti e forse Lampredi. Non specificano e nè potrebbero farlo se, in questo caso, venne anche adoperata la pistola supposta di Lampredi.
Purtuttavia, secondo quasi tutte le ipotesi elaborate considerando la geografia dei colpi premortali che attinsero Mussolini, sui riscontri fotografici delle ferite e sulle poche risultanze balistiche riportate nel verbale autoptico, ci dovrebbe essere una pistola che, oltre al mitra, ha sparato e colpito Mussolini.
Ma quale?

Una pistola calibro 9, poi, qualcuno presume sia stata usata per uccidere la Petacci (magari in coordinata con una sventagliata di mitra) e questo per via che nella esumazione della sua salma venne rinvenuta nel cadavere una o due pallottole di quel calibro (ma qualcuno le imputa ad un mitra calibro 9, altri a colpi attinti post mortem, ecc.).
Sempre secondo la versione ufficiale, sia Valerio Walter Audisio che Guido Aldo Lampredi portavano una pistola e da varie, ma incontrollate testimonianze, in genere si tende ad indicare la pistola di Guido come quella utilizzata nella storica impresa anche se, come abbiamo visto, la pistola si sarebbe poi inceppata al momento di sparare.
E’ stato asserito che tale pistola era una Beretta modello ‘34 (calibro 9 corto, caricatore con 7 cartucce) con matricola 778133, di cui Guido se ne disfece ben presto, regalandola a Riccardo, Alfredo Mordini in quel di Dongo, confidandogli di averla usata (per sparare o per tentare di sparare?) al Duce.
Altre versioni però riferiscono che la pistola era invece di Mordini e sostengono che questi avrebbe anche lasciato scritto di averla usata lui stesso (?) per sparare al Duce il che, se vero, ingarbuglierebbe ancor più tutta la versione ufficiale.
E le favolette continuano e neppure spiegano se questa benedetta pistola sparò oppure no.
Comunque sia il Mordini (almeno si presume), questa pistola la tenne per sé fino alla morte, poi la vedova di Mordini la cedette al partigiano di Varzi, Piero Boveri, che mantenne il silenzio sino al 1983 quando la depositò presso il Museo Storico di Voghera, dove a tutt’oggi trovasi e dove avrebbe trovato il suo imprimatur storico.
Dalle foto di questa pistola, nel museo depositata, si evince che la matricola è 778133 brevettata nel 1939.

Nonostante questo nessuno, ovviamente, può assicurare che, quella pistola, abbia effettivamente sparato al Duce, quindi ai fini di un riscontro balistico serve a ben poco!
Anzi, lo storico ed ex partigiano professor Paolo Murialdi contesta le versioni che la vorrebbero in Lombardia (?) o nel Museo di Voghera, affermando che non sono autentiche: «Questi episodi ci dimostrano che in Italia, a distanza di più di cinquant’anni, su alcuni fatti storici non potremo mai conoscere la verità» (vedere l’articolo su La Repubblica del 31 luglio 2004, visibile nel sito: www.repubblica.it/2004/h/sezioni/cronaca/ ).
Se lo dice lui, un alto esponente della Resistenza, stiamo freschi.
Per concludere: non ci sono elementi oggettivi per attestare se questa pistola, matricola 778133, sia stata effettivamente utilizzata nella storica impresa, né se abbia o meno effettivamente sparato al Duce.
Ma ancor più non sappiamo neanche se ci dobbiamo riferire alle varie e contraddittorie versioni di Valerio o alla Relazione di Lampredi del 1972 o ancora alla versione revisionata negli anni ‘90 dagli storici della Resistenza (che lascia aperta la possibilità di una aggiunta di Moretti e/o Lampredi come sparatori in circostanze caotiche), o addirittura sia stata utilizzata da altri soggetti, con altre modalità e orari rimasti misteriosi.
Resta comunque la domanda inquietante del perchè, se una pistola fu effettivamente utilizzata nell’uccisione del Duce, non venne consegnata immediatamente, alle autorità della resistenza almeno a titolo di testimonianza storica.

Il presunto mitra

Anche sul mitra che sarebbe stato utilizzato (da chi? E quando esattamente?) per uccidere Mussolini c’è molta confusione.
In svariate testimonianze ed ipotesi, tutte incontrollabili, sia d’epoca che rese molti anni dopo, in particolare quelle che vogliono suffragare alcune versioni alternative, oltre che di un MAS 1938 calibro 7,65 L. (versione ufficiale), si parla anche di altre armi automatiche eterogenee:
si parla di due mitragliette, oppure di un mitra Thompson, di mitra cecoslovacco calibro 9, di mitra Sten (calibro 9), poi di pistola spagnola a canna lunga, e così via.
Nessun autore di queste ipotesi, però, porta prove oggettivamente attendibili per dimostrare quanto asserito.
Tante anche le contraddizioni presenti nei racconti resistenziali e nelle varie testimonianze d’epoca che attestano: una volta che il mitra, dopo l’esecuzione, rimase a Valerio il quale non volle restituirlo al Michele Moretti (che l’aveva prestato nell’occasione perchè il Thompson di Valerio era inceppato); un altra volta invece ci dicono che Moretti arrivato a Dongo, poco dopo l’esecuzione, ebbe a mostrarlo ai partigiani, tutto trionfante e dicendo «E’ questa l’arma», ecc.
Senza considerare poi coloro che tendono ad indicare uno dei guardiani del Duce ovvero il Lino Giuseppe Frangi ed il suo mitra (non ben specificato) come autore della uccisione del Duce (anche il Frangi sembra che tornato a Dongo tutto esagitato mostrasse il suo mitra asserendo «E’ questa l’arma»).
E’ comunque certo che, sia Mussolini che la Petacci, furono uccisi anche e sopratutto attraverso l’uso di un mitra.
Quello che però, per la fucilazione, ha avuto l’avallo delle fonti ufficiali è il mitra di fabbricazione francese che lo stesso Valerio ebbe a indicare come: modello Mas 1938, calibro 7,65 L., con matricola F.20830 e con nastrino rosso sulla canna.
Si narrò anche che, dopo questa impresa, il mitra fosse stato smontato e le relative parti donate ai vari protagonisti; ma è anche stato affermato, in ambito giornalistico, partigiano e resistenziale, che il mitra MAS si troverebbe in un museo a Mosca, perché regalato a suo tempo a Stalin.

Il Generale Ambrogio Viviani, autore di alcune osservazioni sulla morte di Mussolini, riferisce che il mitra calibro 7,65 modello 38 matricola 20830 era al Museo del KGB di Mosca dove lo stesso Generale ha «avuto modo di vederlo e di sentirne la storia» (vedere l’articolo: «Osservazioni sul mistero della morte di Mussolini e Claretta Petacci» di A. Viviani, visibile nel sito: www.larchivio.org/xoom/ambrogioviviani.htm ).
Tante altre storie, incontrollabili, girano in proposito, affermando che il mitra che uccise il tiranno fu regalato a Luigi Longo.
Ma si disse anche che i partigiani avevano allestito una serie di cloni del Mas modello 1938, regalati come cimeli proprio a Stalin e Longo.
Addirittura, Pietro, Michele Moretti, unanimemente considerato come il proprietario dell’arma prestata per questa occasione a Valerio (oppure usata da Moretti stesso secondo altre versioni), ebbe a confidare, sia pure a mezza bocca, a G. Cavalleri nei primi anni ‘90, il quale lo riportò nel suo «Ombre sul lago», Piemme, 1995: «(il mitra) …è molto più vicino di quanto non si pensi. E’ in solaio… Più o meno da quando abbiamo costruito questa casa nel 1955».
Dopo la morte di Moretti, avvenuta nel 1995, non sembra però che sia uscito fuori alcun mitra dal suo alloggio in via Pollano 83, e la telenovela continua!
Più recentemente, invece, è venuto fuori che il mitra fu donato da Valerio nel 1957 al Partito Comunista Albanese (PLA), con tanto di nastrino rosso legato alla canna, caricatore, 4 bossoli raccolti e lettera di accompagnamento che precisava essere proprio l’arma ed i bossoli che uccisero il Duce.

Questa la lettera di Audisio: «Compagni, la questione rimanga segreta. Cari compagni, in occasione del tredicesimo anniversario della Liberazione della vostra Patria dagli invasori nazi-fascisti, a testimonianza della mia profonda ammirazione per l’eroico popolo albanese, vi invio in dono l’arma con la quale - il 28 aprile 1945 - venne giustiziato il criminale di guerra Benito Mussolini, per ordine del Comando Generale dei Partigiani italiani».
In genere è questa l’ultima versione che viene accettata dagli storici più o meno resistenziali.
Un altra lettera coeva del vice ministro degli Esteri albanese Vasil Nathanaili, datata 30 novembre 1957, documentava la trasmissione dell’arma a Hysni Kapo, luogotenente di Enver Hoxha nella gerarchia del potere.
Nathanaili precisa che Walter Audisio si era raccomandato con il diplomatico Edip, autore materiale del trasporto del mitra fuori dall’Italia, «che la questione dell’arma rimanesse segreta».
Da quello che si sa, precedentemente nell’estate di quell’anno Audisio, allora deputato del PCI, aveva trascorso le vacanze proprio in Albania ed effettivamente poi, in Albania, un mitra di questo tipo è stato trasferito, nel 1976, al Museo Nazionale di Tirana che lo ha esposto nel 1980 con la scritta: «Con questa arma, il 28 aprile 1945, un’unità di partigiani italiani fucilò il capo del fascismo Benito Mussolini» (interessante per molti di questi particolari è l’articolo di Vacca G., Sinani S. «Vi regalo il mitra che ha sparato al Duce», in Corriere della Sera, 31 luglio 2004).

Nella lettera Audisio ebbe anche a scrivere, a proposito dell’arma, del nastrino rosso, ecc.: «Questi dati erano stati da me resi pubblici con una dichiarazione in data 18 settembre 1945 pubblicata sul giornale l’Unità il giorno successivo a firma ‘Colonnello Valerio’, che pertanto qui confermo».
Effettivamente l’Unità, pubblicò una lettera datata 18 settembre ‘45 nella quale, rispondendo ad una richiesta del direttore Velio Spano: «E per soddisfare la legittima curiosità dei lettori del nostro giornale», l’interlocutore che si firmava colonnello Valerio aveva dichiarato:
«ti informo che il mitra Mas che servì a giustiziare Mussolini portava i seguenti contrassegni: calibro 7,65L., Mas modello 1938, F.20830 ed aveva un nastrino rosso legato alla canna».
Con queste parole stranamente indirette («servì a giustiziare» e non «mi servì per giustiziare») Valerio, al tempo ancora non dichiaratosi come Audisio, ufficializzò quest’arma.
Ma chi era poi il proprietario dell’arma al momento dell’uccisione del Duce?
Come Audisio stesso e testimonianze correlate alla versione ufficiale hanno affermato, al momento della esecuzione il suo mitra, un Thompson americano, si inceppò ed egli lo sostituì con quello di «Bill» Urbano Lazzaro, secondo la versione del ‘45, ovvero di «Pietro» Micheli Moretti, secondo le sue relazioni successive ed il suo libro definitivo del 1975.
E come appartenente a Michele Moretti è stato poi da tutti definitamene assegnato.
Solo una cosa però è certa il mitra è poi sparito.
Inoltre, secondo la versione ufficiale, ricostruita a pezzi e bocconi, dovrebbero essere stati sparati una diecina di colpi, alcuni dei quali - secondo i racconti dello stesso Audisio - attinsero Mussolini.

Molti anni dopo, l’improvvisato autista di quell’impresa Giovanbattista Geninazza, che aveva trasportato il trio giustizialista (Valerio, Guido, Pietro), riferì a Franco Bandini che subito dopo l’esecuzione egli raccolse cinque bossoli «e Valerio pure ne raccolse qualcuno». Anche Moretti confermò che ci fu una raccolta di bossoli.
Testimonianze affermano poi che, davanti al cancello di villa Belmonte si rinvennero pallottole e bossoli calibro 7,65.
Subito si è sostenuto che in tali testimonianze troverebbe conferma sia il fatto che Mussolini fu giustiziato con questo mitra MAS e sia il fatto che, insieme al mitra, Audisio donò ai comunisti albanesi anche il suo caricatore e quattro bossoli.
Tutta questa storia comunque, superficialmente spacciata sui quotidiani come una riprova della verità della versione ufficiale è palesemente inconsistente e lascia il tempo che trova.
Probabilmente, infatti, Audisio (o chi per lui) sopraggiunse il pomeriggio a Giulino di Mezzegra per recitare la parte della finta fucilazione al cancello di villa Belmonte, con un Mussolini e la Petacci oramai cadaveri dal mattino.
Egli quindi ha dovuto sparare in quel luogo dei colpi di cui poi raccolse i bossoli e li fece passare alla storia come i bossoli dell’esecuzione.
Quel mitra pertanto, di Moretti o meno, non sarebbe altro che il mitra della finta esecuzione! Non ci sono, infatti, referti che attestino quali pallottole appartenenti ad una precisa arma e rinvenute sul cadavere, uccisero effettivamente il Duce.
Si suppone un calibro 7,65 ma di quale arma?
In un altra ipotesi invece, essendo stato al tempo l’Audisio investito dello storico compito di apparire come il fucilatore del Duce, gli saranno pure state passate indicazioni, particolari da divulgare e forse poi la custodia dell’arma utilizzata per uccidere Mussolini.
Questo mitra, in tal caso, potrebbe essere, ma non è detto che sia, proprio quello che fu effettivamente utilizzato, al mattino, per uccidere Mussolini.
Il fatto che poi quest’arma fu spedita a Mosca o, come sembra, in Albania, con tanto di investitura ufficiale, è del tutto relativo.
Qualche giornalista buontempone, ha invece sparato pomposamente sentenze del tipo: «Ritrovata l’arma che uccise il Duce, era a Tirana: una conferma di più che la versione di Valerio era veritiera» e non ci si posero invece le pur doverose domande e considerazioni in merito.

Primo, per quale motivo nel 1957 fu, praticamente, deciso di far sparire quell’arma regalandola al Partito del Lavoro Albanese con l’impegno di tenerla segreta, quando invece avrebbe dovuto essere consegnata, prima o poi, alla Resistenza: subito dopo la fucilazione non era forse stato detto da Audisio a Michele Moretti, che reclamava l’arma indietro, che oramai essa apparteneva al Museo Storico Nazionale?
Perché non si volle consegnare l’arma e magari farvi effettuare qualche rilievo?
Perchè, nonostante fossero resi noti, sia pure a pezzi e bocconi, i particolari di quella eroica esecuzione, per la quale si era pretesa un alta onorificenza, proprio l’arma giustizialista non fu subito consegnata alla storia?
E perchè non fu neppure consegnata alle autorità italiane oltre 12 anni dopo, cioè nel 1957, da un PCI oramai da tempo perfettamente e democraticamente inserito nel nostro sistema istituzionale e sociale, ed invece con l’invio segreto in Albania si intese toglierla di mezzo?
Di cosa si aveva paura, o meglio cosa si voleva tenere nascosto?

Secondo, dovendo inviare il mitra all’estero e negarlo così alla storia della Resistenza, perché venne scelta la piccola Albania e non, come avrebbe dovuto essere, per un reperto di tale valore storico, la Russia patria del comunismo?
Se si considera poi la responsabilità di quella decisione è probabile che Audisio, durante la sua estate albanese promise e prese accordi per inviarla al partito comunista albanese, ma è altrettanto vero che Audisio non potè prendere quella iniziativa autonomamente, ma certamente fu autorizzato, se non incaricato, dall’alta direzione del partito comunista italiano.

Oltretutto, scegliendo l’Albania, c’era pur sempre il rischio di una futura rottura dei rapporti tra l’Albania e Mosca a causa della minacciata egemonia della Jugoslavia, storicamente ostile a Tirana, nei Balcani, la quale Jugoslavia tendeva a distaccarsi, ma anche a riaccostarsi a Mosca generando di conseguenza attriti tra sovietici ed albanesi.
Infatti, già nel 1956, c’era stato un deterioramento dei rapporti russo - albanesi che comunque si ricomposero a novembre dell’anno successivo.
Nel 1959 poi, è noto, avvenne davvero la famosa rottura tra Mosca (e quindi anche il PCI) e Pechino ed il susseguente schieramento di Tirana con i cinesi.
Ebbene, proprio a novembre del 1957 il PCI, ovvero Audisio, invia con noncuranza e sicurezza l’arma a Tirana?!
Tutto è possibile, ma le perplessità restano (ancora il professor Paolo Murialdi, storico ed ex partigiano della Brigata «Garibaldi» di Voghera affermò in proposito (articolo del 31 luglio 2004 su La Repubblica): «Il mitra di Mussolini a Tirana? Ogni anno esce una versione diversa sulla fine fatta dall’arma che ha ucciso il Duce. Sono state dette tante sciocchezze, ma questa è una delle più grosse che ho sentito finora» (vedere l’articolo nel sito: www.repubblica.it/2004/h/sezioni/cronaca/ ).
Si sarebbe indotti a pensare che, regalando quell’arma a Enver Hoxha un dittatore comunista di secondissimo piano, non si voleva coinvolgere Mosca con una bufala, ipotizzando sempre possibile che in futuro avrebbe potuto uscir fuori che quel mitra nulla c’entrava con la morte di Mussolini!
Dopo quanto abbiamo fin qui esposto, con la massima obiettività, emerge che il solo fatto, sicuramente decisivo, sarebbe quello di poter almeno stabilire con certezza la vera arma o
le armi che hanno sparato al Duce da vivo: e questa certezza, nonostante quanto si vada dicendo, non c’è!

Il vestiario

Risultano perduti quasi tutti i più importanti reperti di vestiario quali: il cappotto (seppur chiaramente non di Mussolini), la camicia nera, la maglietta di salute ed i mutandoni di Mussolini, tutti visibili a Piazzale Loreto, ma ancor più la giacca della divisa misteriosamente scomparsa da casa De Maria a Bonzanigo; mentre restano nella teca del cimitero
di San Cassiano gli stivali ed i pantaloni.
Per la Petacci era, a suo tempo, disponibile almeno la pelliccia oltre una sua foto che ritraeva l’indumento con tanto di fori nella schiena, ma oggi come oggi, anche questo reperto è scomparso e nessuno sa più dove sia finito.
Se, come abbiamo visto, le presunte armi che si asserisce furono impiegate nella fucilazione del Duce e di Claretta Petacci, non offrono nessun elemento utile per confermarne il loro effettivo impiego in quell’evento e quindi, ancora una volta, pongono gravi interrogativi sulla veridicità di quella versione, viceversa i pochi reperti di vestiario pervenutici in qualche modo o visibili nelle foto dei cadaveri, smentiscono in pieno i racconti di Valerio e compagni.

Lo stivale destro «sdrucito» di Mussolini

Lo stivale destro di Mussolini, rotto nel retro, è uno degli elementi più importanti per risalire a quanto può essere effettivamente accaduto quel 28 aprile.
Questo stivale aperto e rovesciato, come si vede anche nelle foto di piazzale Loreto, è stato ripetutamente citato da Valerio e compagni, definendolo genericamente come rotto o sdrucito, fin dall’uscita di casa De Maria, ma senza segnalare impedimenti di deambulazione. Anzi secondo Valerio Mussolini camminava sicuro e spedito!
I fautori della versione ufficiale, in genere, evitano di parlare di questi accenni di Valerio oppure ci girano intorno tentando di dare astruse spiegazioni, ma non convincono.
Per molti anni non ci si era fatto caso e sembrava trattarsi di una normale scucitura ed appariva solo strano che Mussolini, uscito da casa De Maria e condotto all’automobile, potesse aver camminato speditamente nella mulattiera in discesa (che poi avrebbe dovuto essere in salita, ed è questa un altra clamorosa incongruenza nelle versioni di Valerio), come questi testimoni ufficiali asserivano sia a voce che per iscritto nelle loro relazioni.
Ma successivamente con il prelievo di questi stivali dalla teca che li conteneva nel cimitero di San Cassiano, si è potuto vedere che la sdrucitura in realtà era una totale rottura dovuta al fatto che la chiusura lampo (saracinesca che consentiva a Mussolini di indossarli con comodità date le ferite al piede destro subite nella guerra ’15/‘18) era completamente saltata all’altezza del tallone e quindi non sarebbe stato assolutamente possibile chiuderli in qualche modo, ergo: Mussolini non avrebbe certamente potuto camminare, tanto meno spedito come asseriva Valerio, con questo stivale aperto e rovesciato, al massimo, se costrettovi, forse si sarebbe potuto trascinare saltellando per pochi metri!

Come fece notare Giorgio Pisanò, quando Mussolini era arrivato, verso le 5 del mattino, a casa De Maria, nessuno, dicasi nessuno, aveva notato e poi riferito dello stivale rotto.
Quindi Valerio aveva mentito nell’affermare di averlo visto rotto addosso a Mussolini alle 16 circa, essendo molto improbabile che Mussolini se lo fosse rotto in casa al mattino ed ancora più improbabile, se non impossibile, che ci abbia poi camminato spedito nel suo ultimo tragitto come da lui affermato.
Valerio, poi aveva anche equivocato tra una sdrucitura ed una ben più grave rottura
della cerniera e questo perchè non sapeva di questa totale rottura, altrimenti non avrebbe asserito e descritto, nella sua foga denigratoria, un Mussolini che camminava spedito e sicuro (sottintendendo la sua fretta di mettersi in salvo) con quello stivale per il suo ultimo tratto
di strada.
Ed aveva mentito perché pensava che il particolare dello stivale aperto e sdrucito, da tanti notato a piazzale Loreto, lo si poteva anche riportare, arricchendo di particolari denigratori
la sua balorda versione, ma egli, ignorando il vero tipo di rottura, lo riferì così in modo generico, tanto chi se ne sarebbe accorto?
Aveva praticamente fatto una classica excusatio non petita, non immaginando di incorrere poi in altre contraddizioni.

Per la cronaca anche Piero, Orfeo Landini, disse di aver notato lo stivale sdrucito, al momento del caricamento dei cadaveri sul camion al bivio di Azzano ed in effetti, come vedremo, il pomeriggio del 28 aprile 1945 lo stivale di Mussolini era stato già rotto.
Sicuramente quella cerniera è saltata nel tentativo, fatto qualche ora dopo la morte del Duce, avvenuta come oramai è certo al primo mattino, di calzarlo a forza su un piede irrigidito in posa anomala, in parte per le vecchie ferite al piede e alla gamba, in parte per le cause violente e repentine della morte e quindi per un inizio di rigor mortis.
La certezza, ad oggi acquisita, che Mussolini non avrebbe potuto camminare con questo stivale ai piedi, mette seriamente in dubbio tutta la versione di Valerio perché si dovrebbe dimostrare come abbia potuto camminare Mussolini, per quei viottoli, da casa De Maria alla macchina ferma nella piazzetta del Lavatoio.
Anzi la versione ufficiale dice che camminava spedito e sicuro!

I pantaloni di Mussolini

I pantaloni indossati da Mussolini, fortunatamente rimasti nel cimitero di San Cassiano, avrebbero potuto essere un altro reperto importante per il fatto che se non riportavano i fori causati dal colpo entrato al fianco e fuoriuscito dal gluteo, poteva anche supporsi un ferimento di Mussolini semi nudo e più o meno a terra, all’alba, dentro la stanza e durante una violenta colluttazione, così come ipotizzava il medico Alessiani.
Un colpo, infatti, lo aveva attinto al fianco destro con un piano inclinato dall’alto in basso (anche se poteva essere quello stesso che aveva trapassato il braccio destro) ed era uscito dal gluteo con inclinazione di 40 / 50 gradi.
Quindi, in questo caso, se i pantaloni non riportavano questo foro, era ovvio che c’era stata una successiva rivestizione del cadavere.
Viceversa se questo foro lo si riscontrava nei pantaloni si poteva supporre che Mussolini era stato ucciso almeno con indosso i pantaloni ed era poi stato rivestito tranne che per i pantaloni che appunto già indossava.
Diciamo, in questo caso, solo supporre, perché in effetti pur riscontrandosi uno o più fori non era ugualmente certo stabilire quando questi fori o strappi erano stati attinti (sul cadavere del Duce, infatti, apparivano anche colpi sparati post mortem).
L’indagine risultava difficile ed alterata dai colpi di varia natura ricevuti, chissà dove, da Mussolini da morto.
Inoltre fu eseguita non certo da periti esperti, ma da giornalisti, tra cui Giorgio Pisanò, cineoperatori e parenti del Duce.
Rimane comunque di un certo valore.
L’estrazione del reperto dalla teca del cimitero di San Cassiano, dopo attenta osservazione, non mostrava un foro al fianco destro chiaramente attribuibile ad un colpo di arma da fuoco, ma un tal foro lo si poteva però dedurre da altri strappi e lacerazioni più sopra, un colpo da collocarsi appena sotto la linea della cintura molto sulla destra, come infatti una rilettura più attenta dell’autopsia poteva anche far supporre che il colpo al fianco avesse avuto una traiettoria più alta.
Per quanto riguardava il retro, invece, dove si sarebbe dovuto riscontrare un foro causato
dallo stesso colpo fuoriuscito dal gluteo, non si poteva dare un giudizio preciso per via di vari strappi che gli indumenti riportavano.
Quindi, ma sempre nel campo delle semplici ipotesi, se ne poteva dedurre che Mussolini, quando è stato ucciso, o comunque prima ferito al fianco destro (e forse anche al braccio), poteva anche avere indosso i pantaloni.

Il cappotto e/o la giacca di Mussolini

Il cappotto

Come è noto Mussolini venne prelevato dalla casermetta della Guardia di Finanza di Germasino intorno all’1,45 di notte per essere portato, dopo un mai chiarito percorso, in casa dei De Maria a Bonzanigo.
Le fonti pervenuteci sono contraddittorie e lacunose e quindi non è chiaro stabilire se, nell’occasione, gli venne dato un cappotto e/o uno o due coperte per ripararsi dal freddo. Pedro il Pier Bellini delle Stelle disse che lo portò di notte a casa De Maria con la testa fasciata e con un pastrano militare troppo lungo per lui ed una coperta sulle spalle.
Facciamo però un salto avanti e portiamoci al pomeriggio del 28 aprile 1945 quando, secondo la versione ufficiale, intorno alle 16 Mussolini e la Petacci vennero condotti al cancello di Villa Belmonte dove, si dice, furono fucilati.
Anche qui, nelle varie versioni di Valerio Walter Audisio ci sono solo degli accenni di sfuggita che parlano di un soprabito color nocciola, mentre Aldo Lampredi, nella sua famosa Relazione del 1972 indicò un pastrano che, secondo lui, Mussolini si aprì sul petto gridando «sparami al cuore!».
Nelle sue poco attendibili e confuse testimonianze la Lia De Maria ci dice invece che Mussolini uscì da casa sua, con il gruppetto di giustizieri venuto a prenderlo, indossando una giacca impermeabile.
Come vedremo, a Piazzale Loreto fu portato Mussolini cadavere senza alcun cappotto, ma con un inusuale giaccone (a maniche raglan e con un grosso bottone di chiusura verso il collo) mai portato dal Duce (che forse si potrebbe in qualche modo assimilare alla giacca impermeabile citata dalla De Maria) risultato poi però clamorosamente privo di buchi o strappi quali conseguenza di una fucilazione.
E soprattutto privo della giacca della sua divisa di caporale d’onore della milizia.

La giacca

L’ultima foto di Mussolini da vivo, quella che lo ritrae nel tardo pomeriggio del 25 aprile 1945, di fronte la Prefettura di Milano mentre parla alterato con il tenente tedesco Fritz Birzer, ce lo mostra proprio con la giacca della sua divisa e, come detto, varie testimonianze riportano sempre, per i successivi spostamenti a Como, Menaggio, ecc., un Mussolini in divisa (vedere, tra l’altro, Marinò Vigano, «Mussolini, i gerarchi e la ‘fuga’ in svizzera 1944-1945», Nuova Storia Contemporanea numero 3-2001).
Questa benedetta giacca che Mussolini indossava, e che poi è scomparsa, doveva essere quella guarnita al bavero di fiamme nere con fregi a gladio, quattro bottoni dorati in linea verticale, altri quattro più piccoli simili per le tasche laterali sul petto e per quelle più grandi a toppa sui fianchi, sottili bande rosse circuenti i polsi.
Alberto Bertotto, su Rinascita del 20 dicembre 2007, riassume e ci ricorda molte testimonianze in proposito.
Pietro Carradori, il brigadiere di PS suo attendente, attesta che Mussolini salì sul camion tedesco indossando il cappotto da sottoufficiale della Flack sopra la solita divisa di panno grigioverde senza gradi e distintivi (vedere anche: Luciano Garibaldi «Vita col Duce L’attendente di Mussolini Pietro Carradori racconta», Effedieffe edizioni, 2001).
Elena Curti, forse uno dei testi più attendibili, fa chiaramente capire che, nell’autoblinda ferma a Musso, il Duce portava la giacca (e ci sembra ovvio), nella quale probabilmente nascose la piccola, ma importante borsa di pelle a forma di busta di 25 cm. circa, con dentro forse proprio le lettere più compromettenti del suo carteggio segreto con Churchill (ovviamente sparite).
E sempre la Curti, ricorda anche qualche confidenza partigiana, successivamente ricevuta, che indica che quella borsa, mai segnalata ufficialmente dai partigiani di Dongo, fu requisita da Pedro il Bellini delle Stelle, comandante della 52a Brigata Garibaldi e/o dal suo subalterno Bill Urbano Lazzaro che, in proposito, mantennero il segreto (vedere anche Elena Curti «Il chiodo a tre punte», Iuculano editore, 2003.

A questo proposito è interessante leggere una testimonianza di Elena Curti che racconta di aver ricevuto nel 2005, dall’ex partigiano comasco Giuseppe Barberi, di lei coevo e amico
di Pedro Bellini delle Stelle, queste incredibili ed ignobili parole: «…Non immischiarti in un affare che è più grande di te. Sono storie che devi dimenticare anche se le hai vissute in prima persona. Sei una donna e perciò devi restare al tuo posto. Della busta di Mussolini data a Pedro, non bisogna parlarne. Se verrà alla luce non sarà di certo per merito tuo. I tempi odierni non sono ancora sufficientemente maturi per scoperchiare le pentole e non lo saranno per un altro bel pezzo» (vedere l’articolo di A. Bertotto «L’ultimo segreto di Mussolini» su Rinascita del 20 dicembre 2007).
Valerio, si può ricavare qua e la dalle sue plurime versioni, descriverà un Mussolini che: «indossava un soprabito color nocciola, il berretto della GNR senza fregi» (articolo novembre 1945), oppure (nel libro del 1975) «in divisa e con un soprabito color nocciola».
Anche la stessa Lia De Maria in qualche sua testimonianza, riassunta da A. Zanella nel suo «L’ora di Dongo», Rusconi, 1993, fa capire che il Duce porta la divisa.

Il Maresciallo Rodolfo Graziani farà la stessa cosa in qualche sua memoria.
Comunque sia i resoconti che riportano le fasi di quando il Duce, appena catturato, fu condotto nel municipio di Dongo, non menzionano che questi, gettato via il cappotto tedesco, indossasse solo la camicia nera come invece sarebbe certamente accaduto se così fosse stato.
Anche i finanzieri che ebbero in custodia Mussolini a Germasino e ricordano che il Duce aveva freddo, non menzionano però la mancanza della giacca, come logicamente avrebbero invece fatto se il Duce non l’avesse avuta.
Alcune sono descrizioni precise, altre un po’ vaghe, ma se è descritto in divisa deve necessariamente avere anche la sua giacca.
Insomma non c’è alcun elemento per indicare che il Duce, sceso dal camion fermato a Dongo non avesse o si fosse tolto la giacca.
E poi perchè si sarebbe dovuto togliere la giacca?
Solo il Lazzaro «Bill», descrive, nel suo «Il Compagno Bill», Sei, 1989, un (poco credibile e molto sospetto) Mussolini che al momento dell’arresto non aveva la giacca.
Considerando però tutte le storie che aleggiano dietro il sequestro e la successiva sparizione dei documenti del Duce, questa attestazione del Lazzaro risulta sospetta e ci fa pensare alla storia dei documenti contenuti nella piccola borsa di pelle che il Duce, come ricorda Elena Curti testimone nell’autoblinda, nascondeva molto probabilmente proprio sotto la giacca.
In ogni caso il Duce arrivò cadavere a piazzale Loreto con solo una camicia nera ed uno strano giaccone certamente non suo.
La giacca è misteriosamente scomparsa.
Che fine ha fatto?
Mistero!
Perchè Mussolini non l’aveva indosso?
Mistero!

Anche ammesso, forzatamente, che il Duce se l’era tolta, in quanto bagnata nella piovosa notte precedente quando arrivò a casa De Maria, e quindi i ricordi che lo indicano andare alla fucilazione in divisa, fossero imprecisi, perchè non si ritrovò poi in quella casa?
Essa avrebbe dovuto uscir fuori in seguito ed ancora oggi conservata come un cimelio storico. Invece, niente, la giacca si è dissolta nel nulla.
E’ logico che l’ipotesi più normale e che sorge spontanea è quella che indica un Mussolini praticamente rivestito dopo morto, da persone non pratiche e quindi andate incontro a molte difficoltà le quali, forse per praticità, oppure per smarrimento dell’indumento sul momento o altro, non infilarono la sua giacca sul cadavere, ma solo quello strano giaccone sopra la camicia nera.
Ma dalle osservazioni, sia pure superficiali e fatte sempre tramite le foto di piazzale Loreto, anche la stessa camicia nera, che una volta appeso il Duce alla pensilina fu ben presto sfilata e fatta sparire dalla folla in stato di macabra ebbrezza demenziale, sembra non presentare fori o strappi che avrebbero dovuto essere causati da una fucilazione.
Niente cappotto o pastrano, niente giacca di Mussolini: tutti spariti!
Anche la camicia nera è poi sparita, ma almeno l’abbiamo potuta vedere per qualche ora a Piazzale Loreto.

Resta solo un giaccone inusuale (sparito anch’esso dopo lo scempio Piazzale Loreto) e, per giunta privo di colpi: da tanti particolari risulta quindi evidente che Mussolini è stato rivestito da morto e gli è stato messo addosso un altro tipo di giaccone con manica raglan di foggia e taglio giovanile rimediato chissà come e chissà dove!
Intanto occorre dire che l’osservazione della manica destra di questo giaccone non mostra assolutamente il foro che pur dovrebbe esserci (quello al braccio destro, essendo tra l’altro stato provocato da uno sparo a distanza ravvicinatissima, che avrebbe dovuto lacerare i vestiti e che lasciò anche un alone di sparo sul braccio evidentemente nudo!).
In particolare, infatti, si vede bene, anche ad occhio nudo e con un buon ingrandimento, che la manica destra di questo giaccone non presenta fori o strappi che pur avrebbe dovuto avere.
Da varie foto di questo giaccone, poi, non si evincono neppure i fori sul petto e vicino alle spalle!
Certamente i rilievi ad occhio o anche con microscopio, su questi reperti fotografici, sono sempre alquanto approssimativi e problematici, ma abbiamo avuto ultimamente un esame fatto con tecniche computerizzate e speciali filtri, eseguito anche sulla più famosa foto scattata durante l’esposizione di piazzale Loreto quando il cadavere di Mussolini era ancora
in terra ed il suo giaccone bene visibile.
Queste nuove tecniche, con speciali filtri, consentono di individuare molto più concretamente se il capo di vestiario è passato o meno attraverso le fasi di una fucilazione e a volte consentono anche di riscontrare residui di particelle di polvere da sparo.

Da queste foto si deduce dunque che il giaccone (come detto di foggia non militare e con un vistoso bottone allacciato in alto all’altezza del collo, qualcuno parlerà di una grossa spilla) è stato chiaramente fatto indossare ad un Mussolini ormai cadavere: infatti non presenta, dall’esame, fori da proiettile!
Eppure Valerio aveva asserito e scritto, che egli aveva sparato addosso a Mussolini e che questi indossava un pastrano.
Lampredi addirittura aveva anche aggiunto (Relazione del 1972) che Mussolini se lo aprì sul petto gridando «Sparate al cuore!».
Ma il corpo del Duce, oltre che al collo, al braccio ed al fianco, pur presentava 4 fori ravvicinati di proiettile vicino alla spalla sinistra più uno quasi al centro del petto ed un altro verso la spalla destra e quindi, anche se in quel momento aveva il cappotto aperto sul davanti, in alcuni di quei punti il pastrano doveva pur essere strappato o almeno forato!
Il cadavere del Duce, quindi, è stato scaraventato sul selciato di piazzale Loreto con questa specie di giaccone privo di fori o strappi che, rifacendosi alla stessa versione ufficiale, sarebbe assurdo pensare, nè alcuno lo ha mai asserito, che gli era stato messo addosso dopo
la fucilazione tanto per addobbarlo meglio!

La maglietta intima di Mussolini

Un altro reperto di un certo interesse, anzi forse del massimo interesse, è la maglietta bianca, intima, detta della salute, imbrattata di sangue ed altro che Mussolini mostra a piazzale Loreto, dopo che, una volta appeso alla pensilina, era stato in buona parte spogliato.
Anche le mutande di flanella a polpaccio hanno, come diremo, un certo interesse.
Ora l’ipotesi più concreta che si possa fare ci dice che Mussolini fu ucciso proprio con indosso solo una maglietta bianca, i mutandoni e probabilmente i pantaloni.
Purtroppo le macchie che la maglietta presenta in foto non consentono di vedere con nitidezza i fori o gli strappi che pur doveva avere dopo la fucilazione.
Anzi, da una osservazione, superficiale, fatta però su semplici foto e senza attrezzature adatte, sembra che addirittura non avrebbe queste lacerazioni, e questo sarebbe clamoroso e ci condurrebbe alle ipotesi del dottor Alessiani che ipotizzò Mussolini quasi nudo al momento della morte.
Esiste inoltre la possibilità che il cadavere di Mussolini, come risulta dalla testimonianza della signora Dorina Mazzola di Bonzanigo, fu probabilmente lavato presso una fontanella e poi rivestito e quindi non è dato sapere l’esatta vicissitudine subita da questa maglietta.
Il dottor Alessiani, nel suo approfondito studio fece questi rilievi: «La maglietta della salute non manifesta alterazioni da fori per la spalla destra come per i 4 della sinistra o al lato destro della sua allacciatura. Per contro molto slabbrato ed aperto è il bordo delle mutande di flanella. Potrebbe essere segno di colluttazione o di cattivo rivestimento o di trascinamento. Si notino per contro i calzoni perfettamente allacciati. L’apertura delle mutande non può appartenere ad una accidentalità di piazzale Loreto, perché la camicia nera copriva tale intimo indumento e solo dopo l’asportazione di quella, per trazione dal basso, compare nella sua realtà».

Come si vede dalle foto di questa maglietta comunemente esposte su tanti libri e riviste, essa presenta comunque ampie macchie di sangue proprio nei punti dove Mussolini fu colpito
(ad esempio, soprattutto alla spalla sinistra e sotto il collo, più qualcosa all’addome), e questo è un dato sostanziale, ma non assoluto per attestare che quella sia la stessa maglietta della fucilazione, in quanto, anche un altra maglietta, messa non troppo tempo dopo l’uccisione, si sarebbe imbrattata in quei punti.
Ma, ripetiamo, questo non può, o meglio non poteva, a suo tempo essere affermato con sufficiente certezza data la qualità delle immagini.
Ed infatti già a meta degli anni ‘90 Giorgio Pisanò, che aveva sottoposto al professor Giovanni Pierucci di Pavia queste foto, ne aveva ottenuto una risposta in cui il medico affermava che non era possibile dare un giudizio oggettivamente sicuro perché le macchie di sangue ed altri imbrattamenti vari non lo consentivano.
Dieci anni dopo, però, queste stesse immagini, analizzate dall’equipe del professor Pierucci dell’università di Pavia per mezzo di nuove tecniche con il computer e speciali filtri, qualcosa, non visibile ad occhio o per ingrandimento, hanno pur evidenziato.
Intanto si evince bene che la maglietta è intrisa di sangue in corrispondenza, non solo dei sette colpi ricevuti tra spalla, petto e base del collo, ma anche nella zona addominale dove si vedono con chiarezza (sempre con le nuove tecniche informatiche) i risultati di due colpi, clamorosamente non attestati nell’autopsia di Cattabeni.
I rilievi fotografici e digitali hanno rilevato in corrispondenza di questi colpi (soprattutto quelli all’altezza della spalla sinistra e quelli all’addome), in mezzo alle macchie di sangue la presenza del caratteristico alone di polvere incombusta e di micro particelle che ogni colpo d’arma da fuoco deposita sul corpo colpito se lo sparo è avvenuto ad una distanza
non superiore ai 50 cm.
Il raffronto tra l’alone di polvere e altri dati riscontrati in corrispondenza dei colpi noti e quanto rilevato in presenza dei colpi all’addome presenta un quadro assolutamente uniforme: in tutti i casi copiosi versamenti di sangue, fori sicuramente d’entrata, un alone che rivela una distanza di sparo tra i 30 e i 40 cm.
Quindi non una classica fucilazione, ma una esecuzione selvaggia da distanza ravvicinata.

Le mutande

Le mutande di flanella a polpaccio, infine, visibili su Mussolini appeso al distributore, presentano all’allaccio frontale, un ampia slabbratura, mentre invece nulla si riscontra sul davanti dei pantaloni.
Certamente questo danneggiamento non è possibile attribuirlo ad un preciso e determinato evento traumatico, ma è molto probabile che avvenne a Bonzanigo durante il precedente maneggiamento e trascinamento di un cadavere semi vestito.
Conclusione: le polveri e i versamenti di sangue dimostrano che Mussolini, quando fu colpito, aveva indosso solo la maglietta con cui arrivò fino all’obitorio di Milano e forse i pantaloni.

La pelliccia della Petacci

Di estremo interesse è anche il notare i fori nel retro della pelliccia della Petacci (strappo sulla schiena) e compararli ai fori di arma da fuoco, alcuni dei quali in uscita, presenti sul petto e che si evincono dalla foto del cadavere di Claretta Petacci buttato a terra a piazzale Loreto. Questi fori sulla pelliccia ed in uscita sul petto della donna, sono compatibili con una raffica di mitra che ha attinto Claretta Petacci alla schiena con indosso o più probabilmente appoggiata sulle spalle la sua pelliccia.
Le varie versioni più o meno ufficiali, danno la Petacci arrivare a casa De Maria, la notte tra il 27 e 28 aprile 1945, con la pelliccia, ma sono discordanti sul momento di quando uscì da casa De Maria per recarsi alla fucilazione, perché ora la danno con la pelliccia al braccio ed un cappotto o soprabito indosso, ora viceversa con la pelliccia indosso ed un cappotto o soprabito al braccio, ecc.
Di certo a piazzale Loreto arrivò senza pelliccia, né cappotto.
Come detto le foto della pelliccia mostrano uno strappo alla schiena, proprio come se fosse stato prodotto dalla raffica di mitra.
Da altre foto del cadavere della donna si intuisce anche che le traiettorie dei colpi, entrati nella schiena, perforando la pelliccia ed usciti dal petto, possono combaciare.
Alcuni autori di tendenza resistenziale negano, ma con poca convinzione, che la donna indossasse una pelliccia al momento in cui venne uccisa (e mettono anche in dubbio che il reperto mostrato in seguito sia effettivamente quello in questione) ovviamente, in caso contrario, non saprebbero più giustificare quella proditoria uccisione alla schiena.

Qualcuno ci ha provato, ma senza convincere, con la storia dei colpi che avrebbero trapassato i due corpi, al momento della fucilazione di Mussolini da parte di Valerio, in una non meglio specificata sequenza che avrebbe visto la donna, messa vicino al Duce e con la pelliccia indosso, agitarsi e coinvolgersi (o essere coinvolta) nella sparatoria.
Altri hanno affermato, che i fori sulla pelliccia potevano risalire ad alcune ore dopo la morte, ma in questo caso quando, visto che la pelliccia non arrivò a piazzale Loreto?
E’ invece ragionevole ipotizzare, con sufficiente certezza, la validità di questo reperto, che oltretutto trova conferma, per i fori riportati sulla pelliccia, nella testimonianza di Dorina Mazzola di Bonzanigo e che afferma che la Petacci aveva, appoggiata sulle spalle, proprio
la pelliccia quando fu colpita proditoriamente.
La pelliccia della Petacci, comunque, fu fotografata da un certo Giovenanza Amedeo di Gravedona, nato nel 1912 e fotografo dilettante, su incarico del partigiano Luigi Conti di Dongo, i primi di maggio del 1945 (quindi in data non sospetta).
Il fatto è attestato da una dichiarazione scritta del Giovenanza all’Istituto Comasco per la Storia della Liberazione, con tanto di lettera da Gravedona del 18 dicembre 1989.
Come è possibile vedere dalla foto della pelliccia, fatta dal Giovenanza, si evidenziano i fori sulla pelliccia che combaciano alquanto con i colpi visibili, quali fori di uscita, sul petto della Petacci cadavere.

Quindi, questa pelliccia, venne in mano al partigiano Luigi Conti (come attesta inequivocabilmente la lettera del Giovenanza di Gravedona) che la fece fotografare, ma anni addietro la figlia del Conti, Wanda, ha negato che possano averla loro (non si comprende da questa affermazione se non ce l’hanno mai avuta oppure, più probabile il fatto che non ce l’hanno ai giorni nostri).

Professor Maurizio Barozzi

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Last Updated: Thursday, 5 August, 2004, 18:32 GMT 19:32 UK
Gun that killed Mussolini shown
The weapon used to kill Italian dictator Benito Mussolini in April 1945 has resurfaced in Albania's national historical museum.
Officials displayed the French-made sub-machine gun, saying it had been donated to the former Albanian communist regime in 1957.
They say it was a gift from one of the eight Italian partisans who executed the fascist strongman.
The gun has not been shown since the fall of communism in Albania in 1991.
Exhibition order
Shaban Sinani, general director of Albania's state archives, said the 7.65-calibre gun had been sent to communist leader Enver Hoxha's government by former Italian partisan Valter Audisio.
Mr Audisio donated the weapon on the condition that its whereabouts be kept secret, Mr Sinani added.
After Mr Audisio's death in 1973, he said, Albania's last communist leader, Ramiz Alia, ordered the gun to be exhibited - along with Mr Audisio's posthumous book On Behalf of the Italian People.
Mussolini was caught in northern Italy after his regime had crumbled.
The partisans were under orders to execute him.
Mr Audisio fired the rifle five times, after two pistols jammed.
Besides Mussolini, the bullets also killed his lover Clara Petacci.
The partisans had no orders to execute her, but she was hit because she clung to him.
Their corpses were hung on display in Milan.
 
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view post Posted on 8/1/2024, 16:12
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CITAZIONE (Mufasa3 @ 18/12/2023, 20:31) 
… i effetti sembra che il caricatore non si trova…. e non hanno nemmeno una cartuccia per fare una prova. Balistica…. per dei periti balistici mi sembrano molto garibaldini…..

Si sa che i caricatori del MAS-38 non sono molto comuni, ma vale sempre il vecchio adagio: "Chi cerca trova".
www.libertytreecollectors.com/prod...idproduct=10185
https://images.app.goo.gl/G9BFkaigQLVbGMSY8

Forse farli arrivare in Italia non sarà così facile. Però, visto che quell'oggetto serve a una indagine, forse un canale preferenziale si può aprire...
E, una volta finito tutto, lo si lascerà abbinato all'arma.
 
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view post Posted on 9/1/2024, 11:53
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CITAZIONE (Barba elettrica @ 8/1/2024, 16:12) 
Forse farli arrivare in Italia ...

Perchè in Italia? Il mitra è in Albania.
 
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view post Posted on 9/1/2024, 18:35
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Hai ragione, errore mio.
 
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23 replies since 18/12/2023, 08:25   1294 views
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